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08 Luglio 2025 - 15:24
Il dito di Mussolini, nel riquadro la consigliera regionale Disabato
“Basta ambiguità. Le piazze e le strade non possono più celebrare i carnefici del nostro passato, ma devono rendere onore a chi ha lottato per la libertà e la democrazia”. Con queste parole il gruppo regionale del Movimento 5 Stelle guidato da Pasquale Coluccio, Sarah Disabato e Alberto Unia ha depositato questa mattina a Palazzo Lascaris una mozione che si preannuncia destinata a far discutere. Il testo – che verrà discusso nelle prossime settimane in Consiglio – propone la rimozione di statue, monumenti e intitolazioni pubbliche legate al fascismo, alla Repubblica Sociale Italiana e al colonialismo, affinché siano sostituite da simboli e nomi che ricordano partigiani, antifascisti e deportati.
“Non è una battaglia ideologica – chiariscono i consiglieri pentastellati – ma una presa di posizione chiara, necessaria, netta. Le immagini, le parole, i simboli che ogni giorno attraversiamo nello spazio pubblico concorrono alla formazione della nostra identità collettiva. Ed è proprio da lì che bisogna partire per dire che non c’è spazio per chi ha sostenuto un regime fondato sulla violenza e sulla sopraffazione”.
La mozione chiede alla Giunta Cirio di farsi promotrice presso il Governo nazionale di una norma che consenta ai Comuni di intervenire in questo senso. Non una semplice scelta di giunta, dunque, ma un impegno politico che investe la dimensione legislativa nazionale. Le statue eventualmente rimosse – viene sottolineato nel documento – potranno essere ricollocate in sedi museali, dove possano essere contestualizzate storicamente senza celebrare chi si è reso complice o protagonista di una stagione buia per il Paese.
Il Movimento 5 Stelle respinge l’accusa di voler “cancellare la storia”. “Nessuno vuole rimuovere il passato – ribadiscono Coluccio, Disabato e Unia – ma la storia non si celebra glorificando i suoi lati più oscuri. Le intitolazioni pubbliche non sono meri atti amministrativi, sono scelte simboliche: raccontano chi siamo, da dove veniamo, e soprattutto dove vogliamo andare. E noi vogliamo andare verso una società che onora chi ha combattuto per la Costituzione e la Resistenza”.
Nel mirino della mozione ci sono tutte quelle situazioni – ancora numerose in Piemonte – in cui vie, piazze, monumenti e busti portano il nome o il volto di gerarchi, collaborazionisti della RSI, ufficiali coloniali, figuri compromessi con l’ideologia fascista. Un panorama che, secondo i firmatari, andrebbe urgentemente rivisto per “liberare le nostre città da simboli che, ancora oggi, legittimano visioni antidemocratiche e autoritarie”.
A pesare, secondo i consiglieri del M5S, non è solo la memoria, ma anche il presente. “Se oggi vediamo movimenti neofascisti che tentano di riorganizzarsi – affermano – è anche perché il nostro spazio pubblico è ancora segnato da ambiguità, da omissioni, da silenzi. Serve una presa di posizione culturale e politica, e serve ora”.
Nella proposta, il riferimento costante è a quei partigiani e antifascisti – spesso dimenticati – che “hanno dato la vita per un’idea di libertà che oggi siamo chiamati a difendere ogni giorno, non solo con le parole, ma anche con i simboli e le scelte concrete”. Ed è proprio da quei nomi che il Movimento 5 Stelle vuole ripartire: donne e uomini della Resistenza, martiri dei campi di concentramento, difensori della democrazia, da cui trarre ispirazione per le nuove intitolazioni.
La mozione promette di scuotere l’aula consiliare e riaccendere il dibattito su una questione che, tra silenzi istituzionali e retoriche normalizzanti, rimane spesso in secondo piano. Ma per Coluccio, Disabato e Unia “non si tratta di guardare al passato con rabbia, bensì con giustizia. Non possiamo più tollerare che spazi pubblici e nomi delle nostre città onorino chi ha distrutto, invece di costruire. È tempo di rimettere al centro i valori della Costituzione”.
A Torino, non serve scavare per trovare le tracce del fascismo: basta alzare gli occhi, oppure leggere con più attenzione le targhe delle vie, lasciando che sia lo spazio pubblico a raccontare il passato. Un passato fatto di simboli, architetture, monumenti e nomi che ancora oggi sopravvivono – talvolta camuffati, talvolta ben visibili – nei luoghi che attraversiamo ogni giorno. A quasi ottant’anni dalla fine della guerra, Torino resta una città segnata dal ventennio. Una città dove la monumentalità dell’ideologia fascista si è inscritta nel paesaggio urbano, modellando piazze, edifici, strade e perfino statue che non appartengono alla storia che vogliamo ricordare, ma a quella che non abbiamo mai veramente messo in discussione.
Impossibile non cominciare da lì, da piazza Castello, dove la Torre Littoria svetta con i suoi 87 metri di mattoni rossi, perfettamente allineata con l’asse barocco della città, eppure completamente dissonante nel suo linguaggio architettonico. Costruita negli anni Trenta come sede della Reale Mutua, fu immediatamente ribattezzata dai torinesi “il dito del Duce”, simbolo verticale del potere fascista e manifesto dell’architettura razionalista. Una torre che doveva rappresentare, visivamente, l’autorità dello Stato fascista che sovrastava tutto e tutti, compresa la stessa storia sabauda.
A pochi passi, in piazza C.L.N., si trovano le due fontane allegoriche dedicate al Po e alla Dora Riparia. Sono opere eleganti, marmoree, ma dietro la loro apparenza decorativa si nasconde un’altra storia. Il progetto originario prevedeva infatti che al centro della piazza trovassero posto le statue di Benito Mussolini e del re Vittorio Emanuele III. Erano già pronte le basi, il disegno, lo spazio: tutto predisposto per un’iconografia del potere. Fu solo lo scoppio della guerra, e poi la caduta del regime, a impedire che quella piazza diventasse uno dei più espliciti luoghi celebrativi del fascismo.
Più defilata ma non meno significativa è la Casa della G.I.L. – Gioventù Italiana del Littorio – in via delle Rosine. Un edificio destinato all’educazione fisica e ideologica della gioventù fascista, dove la forma segue la funzione: il linguaggio architettonico è austero, geometrico, severo, come doveva essere il corpo e la mente del “nuovo italiano”.
Un altro tassello importante è la Torre di Maratona, all’esterno dello stadio comunale – oggi Olimpico Grande Torino. Voluta dal regime come simbolo della potenza sportiva fascista, la torre è tutto ciò che resta di quello che, all’epoca, era noto come lo stadio Mussolini, inaugurato nel 1933. Anche qui, la monumentalità e la retorica dell’atletismo come esaltazione della forza collettiva si traducono in cemento e prospettive verticali.
Nel cuore della città, nei giardini del Palazzo Reale, si trova invece il Monumento al Carabiniere Reale, scolpito da Edoardo Rubino tra il 1925 e il 1933. Un’opera che unisce la celebrazione dell’arma dei carabinieri al gusto estetico del ventennio, con quella compostezza eroica che doveva ispirare ordine e disciplina.
E poi c’è la Vittoria Alata del Colle della Maddalena, detta anche Faro della Vittoria, eretta nel 1928 per volere di Giovanni Agnelli. Alta, imponente, costruita in uno dei punti più visibili della collina torinese, guarda la città dall’alto come un angelo severo. Formalmente dedicata ai caduti della Prima Guerra Mondiale, in realtà si inserisce perfettamente nella retorica fascista della vittoria e del sacrificio. Un monumento che trasforma il lutto in orgoglio, la morte in potenza.
Uno dei simboli più grotteschi – e forse più misconosciuti – è rappresentato dalle statue di Cesare e Augusto collocate ai lati della Porta Palatina. Non sono antiche, come potrebbe far credere il contesto: sono state collocate lì nel 1934, e furono un dono personale di Mussolini alla città di Torino. Il messaggio era chiaro: l’Italia fascista non era altro che la prosecuzione dell’Impero romano, e Torino doveva esserne il portale simbolico. Due statue nuove di zecca, mascherate da testimonianza storica, che incarnano perfettamente il feticismo per la romanità che permeava ogni angolo della propaganda fascista.
Ma il fascismo torinese non si legge solo nei monumenti. Anche le targhe delle strade raccontano una memoria ancora selettiva, ancora ambigua. Se è vero che molte vie sono state rinominate nel dopoguerra, è altrettanto vero che alcune sono sopravvissute, e che la storia di molte intitolazioni non è mai stata spiegata ai cittadini.
È il caso di via Giovanni Berta, dedicata a un giovane squadrista fiorentino ucciso nel 1921 e trasformato in “martire” dal regime. Ancora oggi quella via conserva il nome, senza alcuna contestualizzazione, né targa esplicativa, né memoria alternativa.
Altre vie, per fortuna, hanno cambiato nome. Via XXIII Marzo, che celebrava la fondazione dei Fasci di Combattimento, è diventata via Giovanni Amendola, in omaggio allo statista liberale assassinato dopo aver denunciato le violenze del regime. Via Tre Gennaio, che ricordava il celebre discorso in cui Mussolini si assunse la responsabilità politica dell’omicidio Matteotti, è stata sostituita con via Bruno Buozzi, il grande sindacalista socialista ucciso dai nazisti. Via Gustavo Doglia, che ricordava un gerarca fascista, è oggi via Enrico Giachino, partigiano eporediese, medaglia d’oro al valor militare. E largo Dario Pini, che commemorava un giovane fascista, è diventato piazza Giuseppe Perotti, in onore del generale e comandante della Resistenza.
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