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Cronaca

Assolto dallo stupro della nipote, “il fatto non sussiste”: il tribunale di Torino chiude un caso lungo quattordici anni

Una vicenda delicatissima, emersa nel 2022 ma radicata nel 2010, finisce con l’assoluzione piena dell’imputato. Una sentenza che divide e riaccende il dibattito sulla giustizia nei casi di abuso

Assolto dallo stupro

Assolto dallo stupro della nipote, “il fatto non sussiste”: il tribunale di Torino chiude un caso lungo quattordici anni

Nel silenzio severo di un’aula del tribunale di Torino si è chiuso uno dei processi più controversi degli ultimi mesi. Un uomo di 37 anni è stato assolto con la formula “il fatto non sussiste” dall’accusa di aver abusato sessualmente della propria nipote, una vicenda che, secondo la denuncia, sarebbe cominciata nel 2010, quando la bambina aveva appena cinque anni. Solo nel 2022, dopo dodici anni di silenzio, la ragazza – oggi ventenne – ha raccontato la sua versione durante una visita ginecologica. Un racconto doloroso, nato da un colloquio intimo con un medico e trasformatosi in un’inchiesta penale.

La procura, nelle mani della pm Barbara Badellino, aveva chiesto sei anni di reclusione per l’imputato, sostenendo che il quadro fosse coerente con le dichiarazioni della giovane. Ma la giudice Manuela Accurso Tagano, al termine di un rito abbreviato, ha optato per l’assoluzione. Una sentenza che pone fine, almeno sul piano giudiziario, a un’accusa pesantissima, ma che lascia aperti dubbi, ferite e domande. La motivazione è netta: mancanza di prove sufficienti. Un principio cardine del diritto, che impone di condannare solo se la colpevolezza è dimostrata “oltre ogni ragionevole dubbio”.

A difendere l’uomo, l’avvocato Giuseppe Cosentino, affiancato dalla collega Enrica Cosentino. La loro strategia si è basata su una confutazione totale del racconto della presunta vittima, sostenendo che la ragazza sarebbe stata vittima di una suggestione. «Ci aspettavamo questo risultato – ha commentato Cosentino – Il mio assistito si è sempre dichiarato innocente. Ha collaborato con gli inquirenti, ha affrontato tutto con dignità. Gli psicologi hanno confermato che non vi erano elementi oggettivi e la giudice ha riconosciuto il difetto di prova».

Ma la questione è tutt’altro che chiusa nell’opinione pubblica. Come si può provare oggi, nel 2025, un presunto abuso accaduto nel 2010, senza testimoni, senza referti medici, senza intercettazioni? La ragazza – secondo quanto trapelato – avrebbe raccontato episodi reiterati, subiti durante l’infanzia, ma mai denunciati per paura di essere allontanata dalla famiglia. Una motivazione plausibile, se non fosse che la macchina della giustizia richiede riscontri, conferme, compatibilità. E in questo caso, non ce n’erano abbastanza.

Il processo ha messo in luce la fragilità dei meccanismi giudiziari quando si tratta di reati sessuali su minori, soprattutto se le denunce arrivano anni dopo, quando ogni traccia si è dissolta. Ma ha anche mostrato la difficoltà di distinguere tra verità soggettive e verità processuale, tra ricordi frammentati e prove giudicabili. Da un lato c’è un uomo assolto, che esce da un’accusa infamante, dall’altro una giovane donna che ha raccontato di essere stata abusata da chi avrebbe dovuto proteggerla. Nessuno, forse, può dirsi vincitore.

Nel nostro sistema giudiziario, l’assoluzione è un verdetto chiaro: il fatto non sussiste. Ma nel dibattito pubblico, il confine tra innocenza e impunità è spesso più sfumato. Questo caso lo dimostra. E lascia aperta una ferita difficile da sanare.

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