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Cronaca
08 Maggio 2025 - 22:02
Makka Sulaev
La Corte d’Assise di Alessandria ha emesso oggi, giovedì 8 maggio 2025, la sentenza di primo grado per il caso che ha scosso Nizza Monferrato e l’intera opinione pubblica italiana: Makka Sulaev, 19 anni, è stata condannata a 9 anni e 4 mesi di reclusione per l’omicidio del padre, Akhyad Sulaev, avvenuto lo scorso 1° marzo 2024 nell’abitazione di famiglia.
Una vicenda complessa e dolorosa, quella della famiglia Sulaev, fuggita dalla Cecenia e rifugiatasi in Italia nel 2018. Un nucleo familiare segnato da anni di violenze domestiche, abusi psicologici e un clima descritto in aula come di “terrore costante”. A raccontarlo, oltre alla stessa Makka, sono stati la madre, i fratelli, alcuni amici e persino vicini di casa, che hanno confermato una quotidianità fatta di urla, sopraffazione e paura. L’uomo, secondo la ricostruzione della difesa, esercitava un controllo totalizzante sulla moglie e i figli, con episodi frequenti di aggressività e maltrattamenti.
Quel giorno di marzo, l’ennesimo litigio. Ma questa volta qualcosa è cambiato. Secondo quanto ricostruito nel corso delle indagini e dibattuto durante il processo, Makka – all’epoca dei fatti appena maggiorenne – avrebbe colpito il padre con due coltellate, una delle quali fatale. La ragazza è stata arrestata sul posto, dopo aver chiamato i soccorsi in lacrime e confessato l’accaduto.
La Procura aveva chiesto 7 anni di reclusione, riconoscendo una parziale attenuante data dal contesto familiare di soprusi, ma ritenendo comunque la giovane responsabile di omicidio volontario. La Corte è andata oltre, infliggendo una pena più severa: 9 anni e 4 mesi, escludendo però l’aggravante della premeditazione e respingendo la tesi della legittima difesa. Secondo i giudici, Makka ha agito con coscienza, ma non si trattava di un’azione pianificata nei dettagli né di una reazione immediata a una minaccia attuale.
Durante il processo è emerso che poche ore prima del delitto, la giovane avrebbe acquistato un coltello e lasciato alcune riflessioni nel suo diario personale, elementi che per l’accusa dimostravano una “intenzione consapevole di uccidere”. Ma la difesa, sostenuta dagli avvocati e da diverse associazioni per i diritti delle donne e delle vittime di violenza domestica, ha sempre sostenuto che quella fu un’azione dettata dalla disperazione. “Ha agito per salvare se stessa e sua madre. Era terrorizzata”, ha ribadito in aula il legale, sottolineando come il padre fosse stato in passato denunciato per maltrattamenti.
In aula, Makka ha pianto, ha chiesto scusa, ha detto di non aver mai voluto la morte di suo padre. “Volevo solo fermarlo. Avevo paura che avrebbe ammazzato mia madre davanti a me”, ha sussurrato davanti ai giudici. Parole che hanno commosso parte dell’opinione pubblica e che hanno diviso il paese: da un lato chi invoca giustizia per una vita spezzata, quella del padre; dall’altro chi vede in Makka una vittima del sistema familiare e istituzionale, una giovane donna abbandonata e costretta a reagire con la forza per sopravvivere.
Il caso ha sollevato un dibattito nazionale sul ruolo delle istituzioni nella protezione delle vittime di violenza domestica e sulla difficoltà, per chi vive in contesti abusanti, di ottenere ascolto e aiuto prima che la tragedia si compia. Diverse associazioni femministe, tra cui Non Una di Meno e D.i.Re, hanno seguito il processo sin dall’inizio, definendo la sentenza “un’occasione persa per riconoscere la violenza strutturale nelle dinamiche familiari”.
La difesa ha già annunciato ricorso in appello, chiedendo che venga riconosciuto lo stato di necessità e la legittima difesa, anche alla luce delle numerose prove documentali e testimonianze raccolte che dimostrerebbero gli anni di terrore vissuti da Makka.
Ora la giovane tornerà in carcere, dove si trova da oltre un anno in custodia cautelare, mentre la madre e i fratelli, presenti oggi in aula, sono apparsi distrutti e in lacrime al momento della lettura della sentenza. Una famiglia spezzata, una vita segnata per sempre. E un paese chiamato ancora una volta a interrogarsi sul senso profondo della giustizia in situazioni limite come questa.
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