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Cronaca
06 Marzo 2025 - 17:06
In foto una manifestante No Vax
Una battaglia giudiziaria durata quattro anni, quattro gradi di giudizio e un ribaltamento continuo delle sentenze. Ma alla fine, la Corte d’Appello di Torino ha messo la parola fine: l’Asl TO3 dovrà risarcire il lavoratore sospeso per non essersi vaccinato contro il Covid-19. Una vittoria che, secondo l’avvocato Fabio Pansera, «potrebbe fare giurisprudenza e aiutare molti altri lavoratori a far valere i propri diritti».
Il caso riguarda un Operatore Socio-Sanitario che, nei fatti, svolgeva esclusivamente mansioni amministrative presso l’Anagrafe Zootecnica con sede a Venaria Reale. Sospeso dall’Asl TO3 nel 2022 in applicazione dell’obbligo vaccinale imposto ai sanitari, il lavoratore aveva impugnato il provvedimento. In primo grado, il Tribunale di Ivrea gli aveva dato ragione, condannando l’Asl al risarcimento per i cinque mesi di sospensione.
Ma nel 2023 arriva il ribaltone: la Corte d’Appello di Torino annulla la decisione di Ivrea e dà ragione all’azienda sanitaria, condannando il lavoratore a pagare le spese legali. Un colpo durissimo per il dipendente, che però non si è arreso e ha proseguito la battaglia fino in Cassazione.
E nel 2024 arriva il secondo colpo di scena: la Suprema Corte di Cassazione riconosce la validità delle argomentazioni del lavoratore e rinvia la decisione nuovamente alla Corte d’Appello di Torino. Ed è qui che, ieri, mercoledì 5 marzo 2025, è arrivata la sentenza definitiva: il lavoratore aveva ragione, l’Asl dovrà risarcirlo e farsi carico di tutte le spese legali sostenute nei quattro gradi di giudizio.
Il punto centrale della decisione è che l’OSS, pur formalmente appartenendo al personale sanitario, svolgeva di fatto mansioni puramente amministrative e senza alcun contatto con pazienti o attività cliniche. Un dettaglio che, secondo i giudici, rendeva illegittima la sospensione imposta dall’Asl TO3.
L'avvocato Fabio Pansera
Una lettura che ribalta il precedente pronunciamento della stessa Corte d’Appello, ma che appare perfettamente in linea con la decisione della Cassazione. «Il principio è chiaro – spiega l’avvocato Pansera – non si può applicare un obbligo indiscriminato senza valutare le effettive mansioni del lavoratore».
La sentenza apre scenari importanti per altre situazioni simili. Durante la pandemia, centinaia di lavoratori impiegati in ruoli amministrativi, ma inquadrati come sanitari, sono stati sospesi in forza dell’obbligo vaccinale. Ora, questa pronuncia potrebbe rappresentare un precedente, una chiave per chi vuole ottenere giustizia.
«Spero che questa decisione aiuti tanti altri lavoratori – conclude l'avvocato Pansera – perché questa non è solo la vittoria di un singolo, ma il riconoscimento di un principio di diritto fondamentale».
Con questa decisione, la battaglia dell’OSS di Venaria Reale si chiude definitivamente. Ma il dibattito sugli obblighi imposti durante l’emergenza sanitaria è tutt’altro che finito.
Negli anni della pandemia, tra il 2020 e il 2023, l’Italia si è trovata a fronteggiare una frattura sociale senza precedenti. L’arrivo dei vaccini contro il Covid-19 ha rappresentato, per molti, l’unica via d’uscita dall’emergenza sanitaria, ma per altri si è trasformato in un simbolo di imposizione e perdita della libertà personale. Una divisione che ha scavato un solco profondo nella società, mettendo in contrasto chi vedeva nel vaccino un dovere civico e chi, invece, lo considerava un atto coercitivo e discriminatorio.
Da una parte, c’era la maggioranza che accettava l’obbligo vaccinale imposto per certe categorie di lavoratori o per l’accesso a spazi pubblici. In tanti lo facevano per convinzione, altri semplicemente per necessità: senza il Green Pass non si poteva lavorare, viaggiare, nemmeno entrare in un ristorante. Il vaccino, per questa parte di società, non era solo un atto di protezione individuale, ma anche un gesto di responsabilità collettiva.
Dall’altra parte, c’era chi non si fidava. Un fronte eterogeneo, composto da chi temeva gli effetti avversi dei vaccini, chi denunciava la gestione politica dell’emergenza come autoritaria, chi si opponeva al principio stesso di un obbligo sanitario imposto dallo Stato. Il movimento No Vax – e in misura più ampia i No Green Pass – è diventato un fenomeno sociale e politico, con proteste in piazza, ricorsi legali e battaglie condotte nei tribunali.
La crepa tra le due fazioni si è trasformata in una vera e propria spaccatura con l’introduzione dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario e altre categorie di lavoratori. Medici, infermieri, operatori socio-sanitari: per continuare a lavorare, dovevano sottoporsi alla vaccinazione. Chi rifiutava veniva sospeso senza stipendio. Per molti, questa misura è stata una tutela necessaria per proteggere i più fragili; per altri, una palese ingiustizia.
Il caso del lavoratore di Venaria Reale, che si è visto sospendere nonostante svolgesse esclusivamente mansioni amministrative, è solo uno dei tanti. In tutta Italia, centinaia di operatori si sono ritrovati nella stessa situazione. Alcuni hanno scelto di vaccinarsi per non perdere il posto, altri hanno resistito, facendo ricorso e portando la battaglia nelle aule di tribunale.
Ma il conflitto non si è limitato ai tribunali. Ha attraversato amicizie, famiglie, luoghi di lavoro. Ci sono stati medici sospesi che non potevano più esercitare, insegnanti lasciati a casa, infermieri costretti a cambiare mestiere. E poi, dall’altra parte, colleghi che si sentivano traditi, convinti che chi non si vaccinava fosse un pericolo per tutti.
Le discussioni erano ovunque: nelle chat di famiglia, nei bar, nelle assemblee sindacali. Chi si vaccinava si sentiva dalla parte giusta, chi rifiutava vedeva sé stesso come un dissidente in lotta contro un sistema ingiusto.
Con la fine dell’emergenza e la progressiva cancellazione delle restrizioni, la tensione si è attenuata, ma la ferita sociale è rimasta. Alcuni sanitari sospesi sono stati reintegrati, altri hanno cambiato strada, molti sono ancora in attesa di risarcimenti. Sentenze come quella della Corte d’Appello di Torino dimostrano che il dibattito non è affatto chiuso: la giustizia, in alcuni casi, sta riconoscendo che certe sospensioni erano illegittime, aprendo la strada a nuovi ricorsi.
Ma la vera domanda è: si può davvero ricucire una frattura così profonda? Oppure l’esperienza della pandemia ha lasciato un segno indelebile, trasformando per sempre il rapporto tra cittadini e Stato, tra scienza e libertà personale? Forse, solo il tempo darà una risposta.
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