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28 Dicembre 2025 - 12:26
Il direttore generale dell'Asl To4 Luigi Vercellino
A Torino da mesi non si parla che di questo, dei medici che hanno scelto l’intramoenia e visitano fuori dalle strutture pubbliche.
È diventato un tema politico, prima ancora che sanitario. Un nervo scoperto del sistema sanitario pubblico che chiama in causa regole precise, obblighi normativi e responsabilità e che non possono essere liquidate con una delibera tecnica scritta in burocratese.
Perché l’intramoenia, per legge, non nasce per essere “esterna”, comoda, strutturale. Nasce dentro le strutture pubbliche, negli ospedali e negli ambulatori del Servizio sanitario nazionale. Tutto il resto è una deroga, non una scorciatoia, e come tale dovrebbe essere trattata: temporanea, motivata, documentata.
A Torino questo andazzo è stato scoperchiato senza troppi giri di parole dall’ex commissario della Città della Salute Thomas Schael, rimasto poco anche – e non solo – per questa sua fissazione fastidiosa: andare a vedere davvero se negli ospedali pubblici gli spazi esistessero oppure no.
Schael non si è limitato alle relazioni degli uffici, non si è accontentato delle formule standard infilate negli atti amministrativi. Ha fatto una cosa banale e rivoluzionaria allo stesso tempo: è andato a cercare stanze. Porte aperte, corridoi percorsi, locali guardati uno per uno. E ne ha trovate a bizzeffe. Ambulatori chiusi, locali inutilizzati, spazi lasciati marcire mentre fuori, quasi in parallelo, si moltiplicavano convenzioni, proroghe e collaborazioni con strutture private. Una verità semplice, quasi imbarazzante....
Nel frattempo, sempre a Torino, si è aggiunto un altro tassello inquietante: nei conti del dare e avere tra Città della Salute e le cliniche convenzionate mancano circa 400 mila euro. Un buco che qualcuno dovrà spiegare, ma che per ora resta lì, sospeso. Altro capitolo, certo, ma stesso scenario: controlli deboli, trasparenza opaca, rapporti pubblico-privato trattati come una consuetudine intoccabile, come se porre domande fosse già di per sé un atto di disturbo.
E allora la domanda oggi rimbalza inevitabilmente anche sull’ASL TO4.
Perché se a Torino il caso è esploso, qui da noi il meccanismo sembra scorrere silenzioso, coperto dal linguaggio anodino delle determinazioni dirigenziali, quelle che dicono tutto e non dicono niente.
Il dito è puntato sulla determinazione n. 102 dell’11 dicembre 2025, attraverso cui l'Asl To4 proroga fino al 31 marzo 2026 le convenzioni per l’attività libero-professionale intramuraria svolta fuori dalle strutture pubbliche, con un elenco lungo come la quaresima di cliniche e poliambulatori privati.
Una proroga tecnica, si dirà. Tre mesi soltanto, si dirà. Un passaggio quasi automatico, in attesa di nuove convenzioni. Ma il punto non è la durata. Il punto è ciò che nella delibera non c’è. In tutto il provvedimento non compare una sola riga che dica se, prima di rinnovare queste convenzioni, qualcuno abbia verificato l’esistenza di spazi disponibili negli ospedali pubblici dell’ASL TO4, se siano stati fatti sopralluoghi, ricognizioni, censimenti di locali inutilizzati. Nulla. Nessun riferimento, nessuna istruttoria esplicita. Come se l’intramoenia “allargata” fosse la condizione naturale, non una deroga prevista dalla legge.
Eppure la legge parla chiaro. Il decreto legislativo 502 del 1992, all’articolo 15-quinquies, stabilisce che l’attività libero-professionale dei dirigenti medici è intramuraria, cioè interna alle strutture pubbliche. Il Dpcm del 27 marzo 2000 consente l’utilizzo di strutture esterne solo in via eccezionale, quando l’azienda non sia in grado di garantire spazi adeguati. La legge 120 del 2007 ribadisce che l’intramoenia esterna è una soluzione temporanea, subordinata a una verifica puntuale e documentata. Le linee guida regionali impongono alle Asl di programmare e utilizzare prioritariamente il proprio patrimonio immobiliare. Non “se possibile”. Prima di tutto.
E allora viene da chiedersi: dov’è questa verifica nella delibera TO4? Dove sta scritto che negli ospedali di Ivrea, Chivasso, Ciriè e Lanzo non esistono ambulatori utilizzabili? Dove sono gli atti che attestano l’impossibilità oggettiva di svolgere l’intramoenia dentro il pubblico, prima di rivolgersi sistematicamente all’esterno? Che cosa ne pensa il direttore generale Luigi Vercellino? Che cosa ne pensa la Conferenza dei sindaci presieduta dal sindaco di Ivrea Matteo Chiantore?
La proroga è sterminata. Si va da Aesthetic Clinic al Centro medico Artemisia, dallo Studio medico Aurora al Centro dentistico Carletto, passando per il Centro polispecialistico privato CDC, il Centro medico diagnostico CE.ME.DI., il Poliambulatorio CEM, Cemur 87, il Centro medico ciriacese, il Centro chirurgico, il Centro medico specialistico, il Centro medico Fiore, il CPS Sebastopoli, il CFc Poliambulatorio, la Residenza Challant, CIDIMU, Dhora – Crea Salute, De Medica Chivasso.
E ancora Ex Istituto di medicina integrata, Examina, la Clinica Fornaca, Studio Futura, Genea Biomed, Centro medico Igea, Jervis Servizi, J Medical, Larc 2, Lungodora, Medical Center, Medical Ciriè 2000, Medica Salus, Omnia Salus, Novamedica, la Polimedica Rivarolese, Femm – Polistudio 4E, Primo Centri dentistici, Punto Salute, Re Umberto 67, fino al Centro medico Regis, Istituto Salus, Sandrono, San Luigi, la Clinica Santa Caterina da Siena, il Centro medico San Pietro, il Centro dentistico Sciacero, lo Studio medico Canavesano e il Centro medico Tuzza. Un sistema parallelo, ormai strutturato, che vive accanto al pubblico e grazie al pubblico.
Tutto regolare? Formalmente sì. Ma sostanzialmente legittimo solo se, prima, l’ASL ha fatto ciò che la legge le impone: guardare dentro se stessa. Cercare stanze. Aprire porte chiuse. Esattamente ciò che a Torino aveva fatto Schael, pagando il prezzo della sua ostinazione.
Qui, invece, la delibera scorre liscia, senza domande e senza risposte. E allora la questione non è ideologica, né corporativa. È amministrativa e politica insieme. Perché se nessuno verifica, se nessuno documenta, se nessuno scrive nero su bianco che quegli spazi pubblici non esistono davvero, l’intramoenia allargata smette di essere una deroga e diventa una scelta non dichiarata.
Insomma, la TO4 rinnova, proroga, incassa – si parla di 350 mila euro di introiti presunti – ma non spiega. E quando la sanità pubblica non spiega più, il sospetto non è un esercizio polemico: è una conseguenza naturale.

C’è un equivoco gigantesco che da anni nessuno ha voglia di chiarire: che alcuni medici del servizio pubblico non stiano semplicemente esercitando un diritto, ma si stiano facendo i fatti loro col bancomat dei pazienti. Con la copertura della legge, certo. Ma anche con una disinvoltura che meriterebbe almeno una discussione pubblica, se non un rossore.
Funziona così: il medico è dipendente del Servizio sanitario nazionale, quindi pagato con le tasse di tutti. Però, fuori dall’orario di lavoro, può fare intramoenia. Cioè può visitare a pagamento, saltando le liste d’attesa, spesso fuori dagli ospedali pubblici, in strutture private. Il paziente paga. Il medico incassa. L’azienda sanitaria trattiene una quota. Tutti formalmente felici. Tranne uno: il sistema.
Perché mentre il cittadino aspetta mesi per una visita “normale”, scopre che lo stesso medico è disponibile domani mattina, basta strisciare la carta. E non perché sia più bravo, più efficiente o più veloce. Ma perché il tempo, improvvisamente, si materializza quando diventa fatturabile.
A questo punto scatta la narrazione difensiva: “È tutto legale”. Verissimo. Ma non tutto ciò che è legale è anche decente, né tantomeno sano per un servizio pubblico. Il punto non è la liceità. Il punto è l’effetto sistemico: una sanità che funziona male per spingere verso quella che funziona a pagamento.
E qui il medico non è più soltanto un professionista. Diventa, suo malgrado o con entusiasmo, un operatore economico. Un libero professionista con il badge pubblico. Un dipendente che lavora in un sistema che premia l’attesa e monetizza la disperazione.
Il paziente non è più un cittadino. È un cliente. Anzi, peggio: è un bancomat umano, con un PIN che si chiama paura. Paura di aspettare. Paura di peggiorare. Paura di non farcela. E quando la salute entra in questo meccanismo, l’etica smette di essere un optional e diventa una domanda scomoda.
Si dirà: se togliamo l’intramoenia, i medici se ne vanno. Forse. Di sicuro molti avranno più possibilità di fare carriera. In ogni caso diciamolo chiaramente: abbiamo scelto un sistema in cui il servizio pubblico è tenuto in ostaggio dalla libera professione. E abbiamo deciso che va bene così. Senza ipocrisie.
Il problema non è il singolo medico che visita a pagamento. Il problema è un modello che consente, normalizza e protegge un conflitto di interessi strutturale: più la sanità pubblica rallenta, più quella privata ingrassa. E spesso lo stesso camice passa da una porta all’altra, cambiando solo il POS.
Non servono crociate morali. Serve una domanda semplice, che nessuno fa: può un servizio pubblico reggersi su un sistema che rende conveniente il suo malfunzionamento?
Finché la risposta resterà sospesa, continueremo a chiamare “diritto” ciò che somiglia sempre di più a un affare. E a pagare, come sempre, sarà chi non ha abbastanza soldi sul conto per saltare la fila.
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