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19 Dicembre 2025 - 10:52
Marco Bussone, Uncem
Il governo ci riprova. Ancora una volta. E ancora una volta sulla pelle dei territori montani, trattati come caselle da spostare su una mappa disegnata a Roma, con il righello e senza scarponi ai piedi. La nuova classificazione dei Comuni montani, primo atto conseguente alla legge sulla montagna 131/2025 (firmata Calderoli), si ferma davanti alla Conferenza Unificata del 18 dicembre. Non perché il problema sia risolto, ma perché perfino le Regioni, molte dell’Appennino e alcune delle Alpi, hanno chiesto tempo. Un supplemento di analisi. Tradotto: così com’è, il provvedimento non sta in piedi.
Non è uno stop formale, è una frenata politica. Perché quando anche le Regioni – che dovrebbero essere le prime destinatarie e beneficiarie della riforma – chiedono di rivedere tutto, significa che il meccanismo scricchiola. E scricchiola forte. Il rischio è quello di ritrovarsi con una classificazione che non fotografa la realtà dei territori, ma produce effetti distorti, iniqui, talvolta perfino ridicoli, alimentando nuove fratture invece di sanare quelle esistenti.
Il paradosso è evidente e imbarazzante. Mentre Roma dovrebbe uscire dall’elenco dei Comuni parzialmente montani della precedente classificazione come Castellamonte, rischiano di entrarci città come Reggio Calabria, Cuneo, Biella. E Varazze resta. Un gioco dell’oca amministrativo che rasenta il grottesco. Altro che semplificazione: qui siamo alla demagogia di Stato, mascherata da tecnicismo, con il solito corollario di tabelle, parametri e algoritmi che nulla hanno a che fare con la vita reale delle comunità montane.

A lanciare l’allarme è Uncem (Unione nazionale Comuni e comunità montane) presieduta da Marco Bussone. Da vent’anni ripete sempre la stessa cosa, evidentemente senza essere ascoltata: una classificazione unica dei Comuni montani, basata su parametri identici in tutto il Paese, non serve. Non funziona. E soprattutto divide. Divide territori, divide sindaci, divide comunità che vivono condizioni profondamente diverse tra Alpi e Appennini, tra Nord e Sud, tra crinali alpini e dorsali appenniniche. «Occorre evitare ogni scontro, frammentazione e divisione», ribadisce Uncem, «non possiamo permetterci rotture, difficoltà di dialogo, muri».
Eppure il governo va avanti, ostinato, come se la montagna fosse una formula matematica e non un sistema complesso fatto di lavoro, servizi, fragilità, opportunità. Come se bastasse una quota altimetrica o una pendenza media per decidere il destino di territori interi.
Il metodo, poi, è quello ormai tristemente noto. Uncem non è stata coinvolta nella Commissione ministeriale che in un mese e mezzo ha elaborato i nuovi criteri previsti dall’articolo 2 della legge.
«Una scelta unilaterale del Ministero degli Affari regionali e delle Autonomie», sottolinea l’associazione, «un’esclusione politica prima ancora che tecnica». Una scelta che pesa, soprattutto alla luce del fatto che Uncem, da oltre un anno e mezzo, sostiene apertamente che quell’elenco non andava fatto. E allora meglio togliere di mezzo chi disturba il manovratore, chi mette in discussione l’impianto stesso della riforma.
Eppure la legge, almeno sulla carta, parla chiaro.
«L’articolo 2 prevede una prima classificazione basata su parametri altimetrici e di pendenza, aggiornata annualmente dall’Istat. Poi una seconda classificazione, più ristretta, per individuare – all’interno della prima – i Comuni realmente destinatari delle misure di sviluppo e valorizzazione, tenendo conto anche di parametri socioeconomici. Infine, una terza classificazione che resta valida per la Politica agricola comune e per l’esenzione IMU sui terreni agricoli».
Tre classificazioni diverse. Tre elenchi. Tre livelli di complessità. «Il tutto, naturalmente, in nome della chiarezza», osserva ironicamente Uncem.
Una stratificazione normativa che rischia di generare confusione, contenziosi, interpretazioni divergenti. Un sistema che moltiplica le definizioni invece di affrontare il nodo politico vero: quali territori vogliamo sostenere e con quali strumenti.
Ma c’è di più.
«La nuova classificazione non dovrà incidere su un punto delicatissimo per l’economia delle aree montane», avverte Uncem, richiamando esplicitamente la legge 97/94. Parliamo delle agevolazioni per le imprese e i datori di lavoro, della possibilità di assumere coltivatori diretti residenti con contratti stagionali o part-time senza oneri previdenziali. Un meccanismo che ha consentito per anni di tenere in piedi occupazione, redditi e attività economiche in territori già fragili. «Su questo punto occorre evitare ogni futuro errore e ogni salto nel buio».
Uncem è netta: nessuna ambiguità, nessuna forzatura. Il sistema attuale deve restare in piedi, per evitare caos tra lavoratori e imprese.
Nel frattempo, la legge stessa si contraddice.
«L’articolo 4, che istituisce il Fondo per lo sviluppo delle montagne italiane, affida alle Regioni la possibilità di assegnare risorse anche oltre la classificazione nazionale». In pratica: Roma fa l’elenco, le Regioni lo superano. Un capolavoro di burocrazia inutile che certifica una verità semplice: la montagna è competenza delle Regioni. Lo dice la Costituzione, all’articolo 117. Lo dice la storia istituzionale del Paese. Lo dicono i territori, che non possono essere compressi dentro schemi uniformi.
E allora perché ostinarsi? Perché continuare a giocare con definizioni astratte, a togliere Roma per mettere Cuneo, a parlare di “vera montagna” solo per le Alpi e relegare gli Appennini a “aree interne”, come se fossero territori di serie B? «Una stupidaggine», la chiama senza giri di parole Uncem. E difficilmente si può dissentire.
Negli ultimi tre mesi Uncem è stata tenuta fuori dalla stesura del decreto. Un errore grave, voluto. Ma nonostante tutto, l’associazione non alza muri. «Noi i ponti e le reti le facciamo», ribadisce, chiedendo dialogo e lavoro comune, alle maggioranze e alle opposizioni, per smettere di usare la montagna come terreno di scontro ideologico e concentrarsi sulle vere sfide: servizi essenziali, lavoro, investimenti, coesione territoriale, futuro.
Insomma, mentre il governo continua a produrre elenchi, la montagna chiede rispetto. E soprattutto chiede di essere ascoltata, non classificata.
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Che cos’è davvero la montagna? Una domanda che sembra quasi filosofica, ma che in realtà oggi pesa come un macigno su bilanci comunali, servizi essenziali e futuro di interi territori. Secondo le nuove regole, presentate dal ministro, il numero dei Comuni riconosciuti come montani scenderebbe drasticamente: dagli attuali circa 4.000 – quasi uno su due a livello nazionale – a poco più di 2.800. Una sforbiciata che preoccupa soprattutto l’Appennino, dove molte realtà rischiano di uscire dalla classificazione, perdendo così l’accesso a finanziamenti, agevolazioni e normative specifiche pensate per contrastare spopolamento, isolamento e carenza di servizi.
Nel dettaglio, la riforma introduce tre criteri alternativi. Il primo stabilisce che un Comune possa dirsi montano solo se almeno il 25% della sua superficie si trova sopra i 600 metri di altitudine e se il 30% del territorio presenta una pendenza superiore al 20%. Il secondo criterio fa riferimento all’altimetria media: basterebbero 500 metri per rientrare nella definizione. Il terzo, infine, riguarda quei Comuni che, pur avendo un’altimetria inferiore, sono interamente circondati da territori che rispettano i primi due parametri. Una griglia tecnica che, secondo i critici, penalizza pesantemente le aree appenniniche, caratterizzate da quote più basse ma da fragilità strutturali non meno gravi rispetto a quelle alpine.
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