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17 Dicembre 2025 - 17:26
Il ministro Calderoli
Altro che rilancio delle terre alte. Altro che “promozione delle zone montane”. Dietro il titolo rassicurante della legge 131 del 12 settembre 2025, voluta dal ministro Roberto Calderoli e dal governo Meloni, si nasconde una riforma che rischia di trasformarsi in una vera e propria mannaia per decine di Comuni montani, in particolare in Piemonte. Il DPCM di classificazione dei comuni montani, previsto dall’articolo 2 della legge e ormai al centro di polemiche sempre più accese, sta producendo l’effetto opposto rispetto a quello annunciato: esclusioni, tagli, incertezza e nuove disuguaglianze territoriali.
A denunciarlo con forza sono Alberto Avetta e Monica Canalis, consiglieri regionali del Partito Democratico, che parlano senza mezzi termini di “grave danno alle nostre montagne”. Una denuncia politica netta, che non arriva a sorpresa. “Altro che promozione delle zone montane!”, scrivono, ricordando come i primi segnali d’allarme fossero già emersi settimane fa, quando si iniziava a parlare dei criteri adottati dal DPCM.

Il consigliere regionale Alberto Avetta
Il problema è tutto lì: i criteri. La nuova classificazione si fonda quasi esclusivamente su parametri tecnici come altitudine e pendenza, ricavati dai dati ISTAT, ignorando completamente elementi fondamentali come l’isolamento infrastrutturale, la fragilità demografica, la carenza di servizi, la distanza da ospedali, scuole, trasporti pubblici. In altre parole, una montagna misurata con il righello, buona per i dossier ministeriali, ma lontanissima dalla realtà quotidiana di chi vive nelle terre alte.
Il risultato? Molti Comuni piemontesi restano fuori dalla nuova classificazione, con il rischio concreto di perdere l’accesso a risorse economiche essenziali per contrastare lo spopolamento, sostenere i servizi e mantenere viva la comunità. I danni più pesanti riguardano le province del Verbano Cusio Ossola, di Cuneo e di Asti, ma anche la provincia di Torino paga un prezzo altissimo. Restano esclusi, tra gli altri, Castellamonte, Pertusio, Valperga, Rivara, Levone, Fiano, Cumiana, Sangano, Frossasco, San Secondo di Pinerolo. Un elenco che racconta meglio di qualsiasi slogan cosa significhi davvero questa riforma.
E non è solo una questione di soldi. Come sottolineano Avetta e Canalis, questa nuova mappa rischia di creare una pesante incertezza giuridica, soprattutto sulla composizione delle Unioni montane, strutture già fragili e spesso costrette a sopravvivere tra tagli, accorpamenti e normative contraddittorie. Cambiare i confini della montanità significa rimettere in discussione anni di assetti amministrativi, programmazione e progettualità locale. Un caos annunciato.
Le polemiche, però, non si fermano al Piemonte. In diverse regioni italiane la legge Calderoli sulla montagna sta sollevando critiche trasversali. In Abruzzo, ad esempio, l’assessore regionale alle Politiche per la montagna Roberto Santangelo ha chiesto pubblicamente di rivedere i parametri di classificazione, giudicati troppo rigidi e incapaci di rappresentare le reali condizioni dei territori. Un segnale chiaro: il malcontento non ha colore politico e attraversa amministrazioni di segno diverso.
Anche analisti, tecnici ed esperti di politiche territoriali hanno evidenziato il rischio di una classificazione astratta, che finisce per penalizzare proprio quei Comuni che, pur non raggiungendo determinate soglie altimetriche, vivono condizioni di isolamento, fragilità economica e desertificazione demografica tipiche della montagna. Una montagna “di serie B”, cancellata da un decreto.
E qui emerge il nodo politico vero. Perché questa operazione sa tanto di spending review mascherata, di razionalizzazione fatta sulla pelle delle aree interne. “L’austerity del governo Meloni non può essere pagata dalle terre alte”, scrivono Avetta e Canalis. Una frase che centra il punto: ridurre il numero dei Comuni montani significa ridurre anche il perimetro dei diritti, delle agevolazioni, delle politiche di riequilibrio territoriale.
In questo scenario, il silenzio della Regione Piemonte pesa come un macigno. Cirio che fa? Guarda o interviene? È la domanda che rimbalza tra amministratori locali, sindaci, comunità montane. Perché qui non si tratta di una disputa tecnica, ma di una scelta che segnerà il futuro di intere vallate. Difendere le montagne non significa celebrarle nei convegni o nei comunicati istituzionali, ma metterci la faccia quando Roma decide di tagliare.
Le montagne piemontesi non chiedono privilegi. Chiedono riconoscimento, strumenti adeguati, politiche costruite sulla realtà e non sulle formule. Chiedono che le loro peculiarità territoriali vengano valorizzate e non mortificate, che non vengano cancellate con un tratto di penna da un DPCM calato dall’alto.
Insomma, più che una legge per la montagna, questa rischia seriamente di diventare l’ennesima legge contro la montagna. E mentre a Roma si discute di criteri e parametri, nei paesi esclusi qualcuno si chiede se, oltre alla qualifica di “montano”, non stiano togliendo anche il diritto di restare.
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Che cos’è davvero la montagna? Una domanda che sembra quasi filosofica, ma che in realtà oggi pesa come un macigno su bilanci comunali, servizi essenziali e futuro di interi territori. Secondo le nuove regole, presentate dal ministro, il numero dei Comuni riconosciuti come montani scenderebbe drasticamente: dagli attuali circa 4.000 – quasi uno su due a livello nazionale – a poco più di 2.800. Una sforbiciata che preoccupa soprattutto l’Appennino, dove molte realtà rischiano di uscire dalla classificazione, perdendo così l’accesso a finanziamenti, agevolazioni e normative specifiche pensate per contrastare spopolamento, isolamento e carenza di servizi.
Nel dettaglio, la riforma introduce tre criteri alternativi. Il primo stabilisce che un Comune possa dirsi montano solo se almeno il 25% della sua superficie si trova sopra i 600 metri di altitudine e se il 30% del territorio presenta una pendenza superiore al 20%. Il secondo criterio fa riferimento all’altimetria media: basterebbero 500 metri per rientrare nella definizione. Il terzo, infine, riguarda quei Comuni che, pur avendo un’altimetria inferiore, sono interamente circondati da territori che rispettano i primi due parametri. Una griglia tecnica che, secondo i critici, penalizza pesantemente le aree appenniniche, caratterizzate da quote più basse ma da fragilità strutturali non meno gravi rispetto a quelle alpine.
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