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15 Dicembre 2025 - 12:57
Tac nuove, defibrillatori vecchi: la sanità si rifà il trucco mentre il cuore delle corsie resta obsoleto
La fotografia che emerge dagli ospedali italiani è quella di una sanità a due velocità. Da una parte le grandi apparecchiature – Tac, risonanze magnetiche, mammografi, angiografi – finalmente avviate verso un rinnovamento massiccio grazie ai fondi del Pnrr. Dall’altra, molto più silenzioso e meno visibile, un esercito di apparecchiature medio-piccole che costituiscono la spina dorsale della vita quotidiana nei reparti e che continuano a funzionare oltre i limiti di sicurezza e obsolescenza consigliati. È qui che si annida il vero problema strutturale del sistema sanitario nazionale.
I numeri, presentati al 5° meeting nazionale dell’Aiic, l’Associazione italiana ingegneri clinici, raccontano una realtà che non può più essere derubricata a questione tecnica. Se il 37% delle oltre 8.000 grandi apparecchiature mediche installate in Italia ha più di dieci anni, il loro rinnovo – previsto entro giugno 2026 – è quasi ultimato in anticipo grazie agli investimenti straordinari del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un successo, senza dubbio. Ma parziale.
Il vero tallone d’Achille riguarda le tecnologie medio-basse: defibrillatori, macchine per anestesia, incubatrici neonatali, elettrobisturi, monitor multiparametrici, laser chirurgici, endoscopi. Dispositivi che non fanno notizia, ma che vengono utilizzati ogni giorno, in ogni reparto, spesso in situazioni di emergenza. Secondo la survey dell’Aiic, una percentuale che oscilla tra il 25% e il 50% di queste apparecchiature viene sostituita solo dopo dieci anni, quando le linee guida indicano tempi di vita molto più brevi.

I defibrillatori, fondamentali in pronto soccorso e terapia intensiva, dovrebbero essere rinnovati dopo sette anni. Le incubatrici neonatali, strumenti delicatissimi per la sopravvivenza dei prematuri, non dovrebbero superare la stessa soglia. I monitor non dovrebbero andare oltre otto anni, mentre gli endoscopi hanno una vita media ancora più breve, intorno ai cinque anni. Eppure, nella pratica quotidiana, queste scadenze vengono sistematicamente superate.
Il risultato è un parco tecnologico che regge grazie a una manutenzione straordinaria continua, spesso al limite. L’indagine lo dice chiaramente: nelle sale operatorie, nei reparti maternità, nelle terapie intensive e nei pronto soccorso, il personale sanitario utilizza apparecchiature con prestazioni non allineate agli standard più recenti, la cui sicurezza e continuità di esercizio è garantita solo grazie all’intervento costante degli ingegneri clinici, con costi elevati e carichi di lavoro crescenti.
È un equilibrio fragile. Ogni apparecchiatura che invecchia non perde solo efficienza, ma diventa più soggetta a guasti, fermi improvvisi, errori di misura, incompatibilità con i nuovi sistemi informatici. In alcuni casi, la manutenzione diventa così complessa da avvicinarsi al costo di una sostituzione, senza però offrire le stesse garanzie in termini di prestazioni e sicurezza.
Il paradosso è evidente: mentre lo Stato investe miliardi per rinnovare le grandi tecnologie, quelle che rappresentano il volto visibile della sanità moderna, trascura un patrimonio che vale oltre il 60% dell’intero parco tecnologico del Servizio sanitario nazionale. È proprio questo dato, sottolineato dagli ingegneri clinici, a rendere la questione politica, non solo tecnica.
«Diamo un giudizio molto positivo sul rinnovo delle grandi tecnologie promosso e realizzato dal Pnrr», ha spiegato Stefano Bergamasco, coordinatore del Centro Studi Aiic. «Ma non dimentichiamo di verificare lo stato di salute del resto delle apparecchiature che costituiscono la spina dorsale del parco tecnologico dei nostri ospedali». Una spina dorsale che, se cede, manda in crisi l’intero sistema.
Il Pnrr, per sua natura, ha privilegiato interventi misurabili, visibili, standardizzati. Una Tac nuova è facile da rendicontare, da fotografare, da inaugurare. Un defibrillatore sostituito o un monitor aggiornato non fa titolo sui giornali, ma fa la differenza tra una terapia efficace e una risposta rallentata. Tra una diagnosi tempestiva e un errore evitabile.
C’è poi un tema di disuguaglianze territoriali. La survey dell’Aiic, che rappresenta ospedali di dimensioni diverse tra Nord, Centro e Sud, mostra come il problema dell’obsolescenza colpisca in modo più marcato le strutture con meno capacità di investimento autonomo. Gli ospedali più piccoli e quelli delle aree periferiche sono spesso costretti a prolungare la vita delle apparecchiature ben oltre il consigliato, perché i fondi ordinari non bastano e quelli straordinari non arrivano.
In questo scenario, il ruolo degli ingegneri clinici diventa centrale e, al tempo stesso, insostenibile. Sono loro a garantire che un sistema vecchio continui a funzionare, a intervenire su dispositivi fuori produzione, a reperire pezzi di ricambio sempre più difficili da trovare, a certificare sicurezza dove la tecnologia è ormai superata. Un lavoro invisibile, che tiene in piedi l’ordinario mentre l’attenzione pubblica è tutta concentrata sul nuovo.
Ma affidarsi solo alla manutenzione non può essere una strategia di lungo periodo. Anche perché l’obsolescenza tecnologica non riguarda solo l’hardware, ma anche il software, la cyber-sicurezza, l’interoperabilità dei dati, l’integrazione con i sistemi di telemedicina e di cartella clinica elettronica. Apparecchiature vecchie rischiano di diventare isole analogiche in un sistema che punta, almeno sulla carta, alla digitalizzazione.
Il rischio finale è quello di una sanità apparentemente moderna, ma strutturalmente fragile. Una sanità in cui convivono risonanze di ultima generazione e defibrillatori al limite della vita utile. Una sanità che investe sul futuro senza mettere in sicurezza il presente.
Il messaggio che arriva dagli ingegneri clinici è chiaro: il Pnrr non può essere un punto di arrivo, ma solo un primo passo. Serve una programmazione strutturale, pluriennale, che includa anche il rinnovo sistematico delle apparecchiature medio-piccole. Serve un fondo dedicato, criteri nazionali omogenei, un monitoraggio continuo dell’età tecnologica dei dispositivi. Serve, soprattutto, la consapevolezza che la qualità delle cure non dipende solo dalle grandi macchine, ma da ogni strumento che entra in contatto con il paziente.
Perché se è vero che una Tac salva la vita con una diagnosi precoce, è altrettanto vero che un monitor affidabile, un’incubatrice efficiente, un defibrillatore pronto possono fare la differenza tra la vita e la morte in pochi secondi. E continuare a rimandarne la sostituzione significa scaricare il costo dell’inerzia sul personale sanitario e, in ultima analisi, sui pazienti.
La sanità italiana ha colto l’occasione del Pnrr per rinnovare la sua vetrina tecnologica. Ora deve dimostrare di saper rafforzare anche le fondamenta. Perché un sistema sanitario non si giudica solo da ciò che brilla, ma da ciò che funziona ogni giorno, in silenzio, nelle corsie.
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