Quasi duecentocinquanta donne: tante quante ne sarebbero finite nella rete di un funzionario del ministero della Cultura francese che, per quasi un decennio, avrebbe trasformato un normale colloquio di lavoro in un’esperienza di umiliazione fisica e psicologica. Tutto comincia da caffè e tè offerti con cortesia, come in qualsiasi selezione formale. Ma quelle bevande, secondo l’inchiesta in corso, erano addizionate con un potente diuretico illegale. Il resto lo faceva la sceneggiatura perfetta dell’uomo che conduceva i colloqui: una passeggiata “per conoscersi meglio”, rigorosamente lontano da qualunque bagno. L’urgenza di urinare diventava così il punto di rottura. E lì si consumava il meccanismo della violenza, non gridata ma scientemente costruita.
Le testimonianze sono un catalogo di vergogna, paura e incredulità. C’è chi racconta di aver iniziato a sudare, tremare, perdere lucidità. C’è chi ha pregato di fermarsi, chiedendo una “pausa tecnica”, ignorata dal dirigente che continuava a camminare come se nulla fosse. E ci sono le storie più dure: donne che non sono riuscite ad arrivare in tempo a un bagno, costrette a bagnarsi i vestiti o a urinare in pubblico. Una violenza che non lascia lividi ma scava un solco profondo, perché mischia umiliazione, senso di colpa e la percezione di essere state manipolate da qualcuno che incarnava il potere dello Stato.
Il protagonista di questa vicenda è Christian Nègre, un funzionario che per anni ha selezionato personale nel nome della Repubblica. Le prime crepe emergono nel 2018, quando un collega segnala un comportamento molesto: tentativi di fotografare le gambe di una dirigente durante una riunione. Non una goliardata, come qualcuno prova a raccontarla, ma il frammento di un comportamento seriale. Una perquisizione permette agli investigatori di trovare un documento inquietante: una lista di donne, accompagnata da date, orari, reazioni fisiche dopo l’assunzione delle sostanze. Il titolo del file, “Esperimenti”, basta da solo a gelare il sangue.

Nel 2019 Nègre viene escluso dal ministero e rimosso dal servizio pubblico. L’indagine si formalizza in accuse pesantissime: somministrazione di sostanze stupefacenti, violenza sessuale, abuso di autorità. Eppure la storia si inceppa. La macchina giudiziaria francese si muove con una lentezza che somiglia alla rassegnazione. Il processo non parte, molti atti rimangono da completare, decine di donne aspettano ancora di essere ascoltate. Intanto lui, in attesa di giudizio, si ricolloca nel settore privato.
Nel frattempo, si moltiplicano le iniziative delle associazioni che chiedono giustizia, denunciando una lentezza incompatibile con l’entità dei reati. Perché questo non è “solo” un caso di molestie: è la dimostrazione di come l’uso strumentale delle droghe possa diventare un’arma per piegare la volontà altrui, togliere dignità, destabilizzare. Una violenza che non ha bisogno del buio né di un vicolo: nasce nel luogo più insospettabile, dietro un badge istituzionale, dentro un ministero che dovrebbe rappresentare cultura, diritti, civiltà.
A rendere tutto più stridente è la dissonanza tra il sogno delle candidate — molte appena laureate, in cerca della prima occasione importante — e il precipizio in cui sono cadute. «Era il mio sogno», ha raccontato una di loro. Un sogno infranto da un caffè offerto con un sorriso, che invece nascondeva un’intenzione scientifica, ripetuta, metodica. Una forma di violenza nuova persino nel lessico, quasi intraducibile nella tradizione giuridica europea. Una violenza che molte non sapevano nemmeno esistesse.
Alcune donne hanno ottenuto risarcimenti civili, perché lo Stato non è stato considerato responsabile diretto dei fatti. Ma la giustizia penale, quella che dovrebbe accertare responsabilità e punire i colpevoli, resta ferma. Ed è qui che la vicenda assume un significato che va oltre il singolo mostro, oltre la cronaca nera: parla della vulnerabilità di chi cerca un lavoro, della fiducia riposta nelle istituzioni e tradita, della fragilità delle procedure di tutela, soprattutto quando l’abuso si manifesta in forme sottili, quasi inafferrabili.
La domanda che resta sospesa — e che nessun tribunale, al momento, ha saputo affrontare — è semplice: come è stato possibile che un funzionario potesse agire così a lungo, così indisturbato, nel cuore della macchina amministrativa? Una risposta servirà, prima o poi. Perché quelle donne hanno già pagato abbastanza. E perché una democrazia non può tollerare che un colloquio di lavoro si trasformi in un laboratorio clandestino di umiliazione.