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26 Novembre 2025 - 12:27
Nel cerchio Alfonso Perfetto, presidente del Consiglio comunale di Chivasso
La mozione di revoca depositata contro Alfonso Perfetto del Partito Democratico non è solo un atto politico: è la presa d’atto di ciò che avrebbe dovuto essere evidente fin dal 4 novembre. Un presidente del Consiglio comunale che, durante una seduta ufficiale, si rivolge a un consigliere (Enzo Falbo di Fratelli d'Italia, ndr) con un bau bau bau, ha già superato il limite. Non è una gaffe. Non è un eccesso di nervi. È un gesto incompatibile con il ruolo che ricopre. Punto. E se davvero vogliamo fare un paragone proporzionale, è come se il presidente della Camera o del Senato si permettesse lo stesso verso nei confronti di un parlamentare. In quel caso, le dimissioni non sarebbero un’ipotesi: sarebbero un obbligo.
Per questo parlare oggi di mozione appare quasi surreale. Perché la domanda non è “Perfetto deve essere revocato?” ma “Perché Perfetto non si è già dimesso?”. In ogni istituzione democratica matura, un comportamento del genere sarebbe bastato da solo a chiudere una carriera di presidenza. Non a Chivasso, dove l’anomalia politica si è trasformata in normalità, e la normalità in assuefazione.
A rendere il quadro ancora più paradossale c’è il fatto che il primo firmatario della mozione sia Enzo Falbo, consigliere comunale di Fratelli d’Italia, lo stesso partito che, pochi mesi fa, aveva riso, scherzato e difeso pubblicamente il bau bau televisivo della deputata Augusta Montaruli durante un dibattito a La7. Allora l’abbaiare era diventato una forma di “autodifesa”, una provocazione spiritosa, un modo per ribaltare l’accusa. Oggi, invece, quando il verso risuona in un’aula di provincia, diventa un’offesa intollerabile, una ferita istituzionale, un motivo di sfiducia.
Il punto però non è la coerenza del partito di Falbo. Il punto è la distanza abissale tra ciò che succede in tv e ciò che succede in un’assemblea elettiva. Per quanto discutibile, l’abbaio televisivo resta confinato nel circo mediatico, dove la teatralità domina sul rigore. In un Consiglio comunale no. Un presidente è custode delle regole, del decoro e dell’equilibrio dell’aula. Non è un commentatore. Non è un polemista. Non è un personaggio da talk show. Deve essere super partes, come prescrive la legge, lo statuto e il semplice buon senso.
Se un presidente perde l’equidistanza, perde tutto. E Perfetto, con quel gesto, l’ha persa.
La mozione depositata il 20 novembre non si limita all’episodio del bau bau. Richiama anche altre tensioni, come la gestione dei commercianti nella seduta del 19 maggio. Ma è evidente che il punto di rottura è quel verso di tre sillabe, capace di condensare l’intera crisi istituzionale che da mesi attraversa il Consiglio. Perché il bau bau è stato la scintilla, non la causa. La causa affonda altrove.
Affonda in una riconferma — quella di Perfetto solo qualche mese fa — che aveva mostrato in modo plastico la frattura interna al Partito Democratico. Basta ricordare quella votazione che aveva lasciato più macerie che consensi. Il Pd, che avrebbe dovuto esprimere compattezza sulla figura del presidente, si era presentato invece come un mosaico scomposto. Da una parte il gruppo vicino al sindaco Claudio Castello, al vicesindaco Pasquale Centin e al segretario cittadino Massimo Corcione; dall’altra Giovanni Scinica, Cristina Peroglio, Carla Vera Cena e Domenico Barengo, che avevano contestato apertamente la riconferma, parlando di accordi non rispettati e di una “staffetta” disattesa.
Scinica, con un intervento che sarebbe stato memorabile anche in un parlamento nazionale, aveva detto tutto: «Sono stato il più votato, ma il mio partito mi ha trattato male. Serve generosità, serve equilibrio». Parole che, rilette oggi, suonano come un’anticipazione perfetta della crisi odierna. Il Pd non era unito allora, non lo è oggi, e non lo sarà quando la mozione arriverà in aula entro la fine dell’anno.
E qui sta l’altro elemento chiave della vicenda: l’imbarazzo del Partito Democratico, costretto adesso a difendere un presidente che una parte consistente dei suoi eletti non avrebbe voluto nemmeno riconfermare. Un presidente che, per giunta, ha commesso una leggerezza istituzionale che in qualsiasi altra città farebbe tremare la maggioranza. Gli stessi consiglieri che votarono Peroglio o deposero scheda bianca, oggi dovranno decidere se salvare Perfetto o accompagnarlo alla porta. E l’esito non è affatto scontato.
Perché la mozione non colpisce un uomo: colpisce una maggioranza fragile, attraversata da rancori mai risolti e sospetti reciproci. E ogni voto peserà come un macigno. Ma mentre l’opposizione — da Clara Marta a Bruno Prestìa, da Matteo Doria alla stessa Claudia Buo — ha trovato una sorprendente compattezza nel sostenere il documento, la maggioranza dovrà affrontare il fantasma più scomodo: la propria incoerenza interna.
Perfetto potrà contare sull’appoggio del sindaco Castello, del vicesindaco Centin e, politicamente, di Corcione. Ma l’aritmetica della sala consiliare non è benigna. Due, tre defezioni e la presidenza salta.
E allora il punto diventa inevitabile: quanto è disposto il Pd a sacrificarsi per tenere in sella Perfetto?
Il danno di immagine è evidente. Il ridicolo pure. Eppure difendere il proprio presidente è il comportamento “istituzionale”. Non difenderlo significherebbe ammettere che già qualche mese fa avevano ragione gli scontenti del partito.
La verità è che questa storia non riguarda davvero un abbaio. Riguarda la credibilità delle istituzioni. Riguarda l’idea stessa di come si rappresenta una comunità. E riguarda un Pd che da mesi cammina sulle proprie crepe senza mai provare a ripararle. Ora quelle crepe gli esplodono in faccia.
Quando il Consiglio comunale si riunirà per discutere la mozione, la città assisterà a un passaggio di verità. Non tanto sul destino di Perfetto, che ha già abbondantemente superato il confine dell’accettabile. Ma sul destino della maggioranza che lo sostiene. Una maggioranza che ha fatto finta di non vedere, finta di non sentire, finta di non capire. E che ora dovrà scegliere se preferire la stabilità apparente o la dignità istituzionale.
Qualunque cosa accada, resta un fatto: un presidente del Consiglio comunale che abbaia ai consiglieri non può più essere presidente. Il resto sono scuse, tattiche, giochi di equilibrio. E la politica, quando perde la misura, finisce sempre per perdere anche la faccia.
A Chivasso la faccia l’ha già persa. Ora bisogna vedere chi avrà il coraggio di riconoscerlo.
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