Cerca

Attualità

Yara Gambirasio, 15 anni dopo: cosa sappiamo davvero di quel mistero del 26 novembre 2010

Un’indagine titanica, un condannato che si proclama innocente, un Paese che cerca ancora risposte

Yara Gambirasio, 15 anni dopo: cosa sappiamo davvero di quel mistero del 26 novembre 2010

Yara Gambirasio, 15 anni dopo: cosa sappiamo davvero di quel mistero del 26 novembre 2010

Quindici anni fa, una ragazzina di tredici anni esce di casa per portare uno stereo alle istruttrici di ginnastica ritmica e sparisce nel nulla. Era il 26 novembre 2010, e quel tragitto breve, quasi banale, diventa l’inizio di una delle vicende più laceranti della cronaca italiana. Oggi, a distanza di quindici anni, Yara Gambirasio continua a parlarci. Lo fa con le sue foto, con quei dentini ornati di stelline lucide, con l’innocenza di un sorriso che non sapeva nulla del male. Lo fa con un’indagine che ha spaccato il Paese. E lo fa, soprattutto, per tutto ciò che ha rivelato — o non ha ancora rivelato — sul nostro rapporto con la verità, con la giustizia e con l’ossessione collettiva per i casi che diventano simbolo.

Quella sera nella Bergamasca fa già freddo, ma è un freddo normale, non ostile. La madre la aspetta a casa, il padre è tranquillo: sono poche centinaia di metri, un gesto di quotidianità. Quando il telefono di Yara inizia a squillare a vuoto, quando si capisce che non è una semplice distrazione, la curva degli eventi si piega senza più tornare indietro. Nel giro di un’ora, quel nome che appartiene a una famiglia qualsiasi di Brembate Sopra diventa un’emergenza pubblica. Da quel momento, l’Italia smette di respirare con ritmo proprio e comincia a farlo a fiato corto, seguendo un caso che sembra inghiottito da una terra senza pietà.

Per tre mesi non succede niente. O meglio: succede tutto. Le ricerche, i volontari, i cani, le telecamere, i talk, le piste che non portano da nessuna parte. Ogni giorno si consuma un rito collettivo fatto di speranze sempre più piccole. La scomparsa diventa un vuoto attorno al quale si muovono investigatori che non trovano indizi e una comunità che continua a scandagliare fossi, boschi, cascine. La bambina della ginnastica ritmica sembra dissolta.

Ed è così fino al 26 febbraio 2011. Un giorno ancora più freddo, più duro, più tagliente. Un uomo che gioca con aeroplanini telecomandati osserva il suo modellino cadere nell’erba di un campo a Chignolo d’Isola. Cammina per recuperarlo, ma lo sguardo cade un po’ più avanti. Un mucchio informe, qualcosa che non dovrebbe essere lì. In pochi secondi il campo diventa il campo dell’orrore. Disteso sull’erba c’è un corpo. I vestiti sono gli stessi del giorno della scomparsa. Gli occhi della gente accorsa ai margini vedono solo la fine di una speranza. I giornali, quella sera, parlano già di Yara.

Sul cadavere, la professoressa Cristina Cattaneo, medico legale, scopre le ferite da taglio. Non sono mortali. La ragazzina non è morta dissanguata. Non è morta per mano diretta. È morta lì, in quel campo, di freddo e di stenti, con ciuffi d’erba ancora stretti fra le dita, come se negli ultimi istanti avesse afferrato l’unica cosa rimasta. La brutalità non è solo nel gesto che l’ha colpita, ma nell’abbandono che l’ha condannata. Lì, con lo sguardo rivolto verso un cielo che non ha mantenuto la sua promessa di protezione.

Da quel momento, la domanda non è più dove sia Yara, ma chi l’abbia portata lì. Le analisi, però, svelano un dettaglio che fa tremare gli inquirenti: sul corpo c’è calce. Sui vestiti, microsfere metalliche tipiche dei cantieri. Una firma, forse. Un ambiente. Una possibilità.

E poi c’è il DNA. Sugli slip, accanto al profilo di Yara, emerge quello di un uomo. Gli investigatori fanno ciò che nessuno aveva mai provato prima: migliaia e migliaia di campioni, un lavoro titanico. La traccia porta alla famiglia di Giuseppe Guerinoni, morto anni prima. Da quell’aplotipo Y si arriva a un nome vivo: Massimo Giuseppe Bossetti, muratore, padre di famiglia, incensurato. Il suo mondo crolla in un pomeriggio di giugno del 2014. L’Italia si spacca: chi vede in quella traccia la verità definitiva, chi ci sente un sospetto di fragilità.

Yara Gambirasio

Bossetti viene condannato all’ergastolo in primo grado, poi in appello, poi in Cassazione. La prova regina è il DNA, una di quelle prove che in Italia sembrano sempre più solide nella narrazione pubblica che nei faldoni giudiziari. Ma la difesa non ci sta: sostiene che la traccia sia compromessa, che non sia stata garantita parità tra accusa e difesa, che qualcosa non torni. Per anni chiede accesso ai reperti. Per anni lo ottiene solo in parte. Fino a pochi giorni fa, quando — dopo otto anni — arrivano 9.000 campioni genetici. Troppo tardi? Troppo poco? Non si sa. Ma abbastanza per riaprire una discussione che sembrava congelata.

Nel frattempo c’è altro, e pesa come pietra. Sul computer di Bossetti vengono trovate ricerche inquietanti: “ragazzine”, “13enni rosse”, “adolescenti illibate”. Materiale che i giudici considerano un indizio del suo interesse sessuale per minorenni. Lui continua a dichiararsi innocente. Continua a dire che non sa come il suo DNA sia finito lì. Continua a ripetere che non è stato lui. E un pezzo del Paese gli crede. Un altro pezzo no. Un altro ancora — forse il più onesto — non sa cosa pensare.

La storia, però, non è solo un processo. Non è solo una traccia genetica, una calza, una microfibra. La storia di Yara racconta qualcosa che supera il tribunale. Racconta un’Italia che in quegli anni aveva bisogno di un colpevole tanto quanto aveva bisogno di sentirsi comunità. Racconta la trasformazione dei social in camere dell’eco dove, accanto agli appelli accorati, già nel 2010 comparivano commenti sadici, insulti, speculazioni degne del peggiore circo virtuale. Racconta l’incapacità di distinguere fra partecipazione e morbosa curiosità, fra sostegno e intrusione.

E racconta anche un’altra cosa: la paura delle strade di casa, quelle che dovrebbero essere sicure, quelle dove i genitori non pensano mai che possa succedere qualcosa. Via Pietro Morlotti non era un luogo pericoloso. Non era una trappola. Era semplicemente una via poco illuminata e poco battuta. Yara ci passa perché è la strada più breve per tornare a casa. Un dettaglio insignificante nella vita quotidiana, un dettaglio capitale nel destino.

Gli investigatori, nei primi giorni, scavano ovunque. Pozzi, torrenti, casolari. Sentono persone con precedenti di violenza sessuale, persone fragili, persone sospette. Tutti con alibi. Tutti, come dirà un investigatore, «presenti all’appello». Le indagini sono una corsa contro un avversario senza volto. Le voci, invece, hanno tutti i volti possibili. L’Italia intera si trasforma in un gigantesco talk, un tribunale parallelo, un coro di soluzioni più o meno fantasiose.

Eppure, quindici anni dopo, cosa rimane? Rimane una bambina che non ha avuto il tempo di diventare nulla di ciò che avrebbe potuto. Rimane una famiglia che ha attraversato un dolore che nessuno dovrebbe nemmeno poter immaginare. Rimane una giustizia che — giusta o sbagliata che sia stata — ha provato a riempire un vuoto che nessuna sentenza potrà mai colmare. Rimane un condannato che si proclama innocente. Rimane una comunità italiana che, per la prima volta dopo tanto tempo, ha guardato negli occhi il lato più oscuro di se stessa.

Rimane anche un interrogativo: la nostra fame di verità è più forte della nostra capacità di accettare la complessità? Yara non è solo una storia di brutalità; è una storia che mette a nudo la tensione tra ciò che vogliamo credere e ciò che possiamo dimostrare. Tra la necessità di dare un senso e il limite di ciò che la scienza, la magistratura e l’opinione pubblica possono realmente sapere.

Il corpo di Yara, ritrovato in quel campo, continua a essere un monito. Non tanto per l’orrore che porta con sé, ma per la solitudine spaventosa dei suoi ultimi minuti, per quella lotta inutile contro un freddo che non perdona. È lì che si radica il dolore collettivo: nella percezione che una bambina sia stata lasciata morire nella notte, in un luogo in cui nessuno sapeva cercarla.

Quindici anni dopo, mentre la difesa di Bossetti annuncia nuovi esami, mentre i tribunali potrebbero tornare a occuparsi — almeno in parte — di ciò che accadde, mentre la cronaca torna a farsi sentire, la storia di Yara resta sospesa tra giustizia e memoria.

Ed è proprio la memoria il punto. Ricordare non significa riaprire ferite, ma impedire che il silenzio diventi una forma di resa. Se Yara continua a parlarci, lo fa perché il suo nome è diventato un confine tra l’innocenza e il male, tra ciò che vorremmo proteggere e ciò che non siamo riusciti a salvare.

Oggi, quindici anni dopo, Yara non è più solo una vittima. È una domanda che nessuno ha ancora smesso di farsi. E forse è questo il motivo per cui, nonostante il tempo, nonostante la distanza, l’Italia continua a tornare lì: in quella sera di novembre, in quella strada buia, in quel campo gelato, in quel sorriso con le stelline ai denti che nessuno è mai riuscito a dimenticare.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori