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24 Novembre 2025 - 22:16
Meloni e Renzi
Il presagio di Matteo Renzi, pronunciato a urne ancora calde, riecheggia con forza nei palazzi della politica: «Da domattina Giorgia Meloni proverà a cambiare la legge elettorale. Perché con questa legge lei a Palazzo Chigi non ci rimette più piede». E in effetti, a leggere i numeri delle regionali, l’inquietudine nella coalizione di governo è palpabile. A parte la conferma del Veneto con Alberto Stefani, il centrodestra incassa due colpi durissimi: la sconfitta pesante in Campania contro Roberto Fico e quella ampia in Puglia. Risultati che certificano un dato: con le attuali regole del gioco, se il campo largo resta unito, può competere davvero per le Politiche 2027.
È in questo scenario che uno dei colonnelli più ascoltati dalla premier, Giovanni Donzelli, rompe gli indugi e apre alla necessità di riscrivere la legge elettorale. La giustifica con quella che definisce una priorità assoluta per Fratelli d’Italia: la stabilità. «Se si votasse oggi non ci sarebbe la stessa stabilità che abbiamo ora» premette il responsabile dell’Organizzazione nazionale. E aggiunge: «Noi crediamo che sarebbe utile averla. È una riflessione che facciamo anche sulla legge elettorale, non ci sono dogmi ma crediamo che serva stabilità».
Dietro queste parole, la consapevolezza che la riforma del premierato – arenata in Parlamento – non basta più. Occorre un intervento sulle regole del voto che assicuri governabilità e, soprattutto, metta al riparo la maggioranza da calcoli sfavorevoli.
Mentre Donzelli parla, Giorgia Meloni sceglie il silenzio operativo. Il suo unico messaggio pubblico è di circostanza: congratulazioni ai tre neogovernatori e un ringraziamento a Edmondo Cirielli e Luigi Lobuono, candidati sconfitti. Sul Veneto, la premier mette l’accento su Stefani: «È una vittoria frutto del lavoro, della credibilità e della serietà della nostra coalizione». Ma dietro le parole istituzionali è impossibile non cogliere l’ombra della preoccupazione per un risultato che incrina gli equilibri interni.
Molto più esplicito, sul fronte moderato, è Antonio Tajani, che dall’aereo in volo verso l’Arabia Saudita rilancia il sistema proporzionale, su cui dice di essere «sempre stato favorevole», sostenuto anche da una parte dell’opposizione. Immagina una legge simile a quella dell’elezione dei sindaci o dei presidenti di regione, con l’obiettivo di «dare più rappresentatività ai territori, perché oggi con i collegi i territori hanno avuto meno rappresentatività».
Di tutt’altro umore è Matteo Salvini, che evita di esporsi: non è il momento di incrinare l’immagine di compattezza della coalizione. Il Veneto è rimasto saldamente alla Lega, e i numeri parlano per lui. Il famoso “sorpasso” evocato da mesi dai meloniani nel feudo del “doge” Luca Zaia non è mai arrivato. Anzi, il Carroccio ha quasi doppiato FdI: 36% contro 18,6%, quando manca ancora circa un migliaio di sezioni da scrutinare. Un risultato che porta chiaramente il marchio di Zaia, candidato capolista in tutte le province, decisivo nel trainare il partito e nel blindare l’ultima roccaforte leghista.
In ambienti parlamentari leghisti già circola un interrogativo: le preferenze personali di Zaia, che si preannunciano altissime, potranno col tempo alterare gli equilibri nella leadership del partito? Per ora Salvini glissa e ripete la linea ufficiale: «Vince la squadra». Una frase che non basta però a cancellare le due sconfitte, soprattutto quella in Campania, che brucia più di tutte. La “remuntada” immaginata da Cirielli è evaporata davanti a un distacco di almeno 25 punti dal candidato del campo largo Roberto Fico.
Il quadro è così cristallino quanto inquieto: una maggioranza che non regge l’urto di consultazioni locali significative, un’alleanza tenuta insieme con fatica e un campo largo che, se resta unito, può davvero sfidare la coalizione guidata da Meloni. Da qui l’urgenza di intervenire sulla legge elettorale: una scelta non solo tecnica, ma profondamente politica.
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