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La memoria non si sfotte: daspo per un anno a quattro tifosi della Juve per il gesto su Superga

Durante il derby dell’8 novembre all’Allianz Stadium, i quattro tifosi della Juventus avevano mimato con le braccia lo schianto di un aereo, un riferimento lampante e gravissimo alla tragedia di Superga del 4 maggio 1949

Daspo per un anno a quattro tifosi Juve: il derby oltre il limite, la memoria non si sfotte

Certe linee non si oltrepassano. Punto. Ma quante volte, nel veleno di un derby, la passione confina pericolosamente con l’idiozia? La domanda è scomoda, certo, eppure necessaria dopo quanto accaduto all’Allianz Stadium l’8 novembre, nel derby contro il Torino: quattro tifosi della Juventus hanno mimato con le braccia lo schianto di un aereo, un riferimento lampante e gravissimo alla tragedia di Superga del 4 maggio 1949, che portò via il Grande Torino. Una ferita che non si rimargina, un lutto che è storia del nostro calcio, non una clava da agitare per scherno.

Il gesto è stato ripreso da diversi spettatori, rimbalzato in un lampo sui social e ha acceso un’indignazione trasversale, dal mondo sportivo alle istituzioni. Quando il pallone smette di essere gioco e diventa crudeltà, il fischio finale lo devono dare le regole: le autorità hanno emesso quattro Daspo, divieti di accesso alle manifestazioni sportive, per un periodo di dodici mesi. Un anno fuori dagli stadi. Una panchina forzata lunga, lunga, per chi ha pensato di trasformare la memoria in provocazione.

Derby come questo, tra Juventus e Torino, sono partite che si giocano con i nervi a fior di pelle. Il campo ribolle, le curve cantano, ogni contrasto è un dentro o fuori. Ma tra agonismo e barbarie c’è la stessa differenza che passa tra un tackle duro e un intervento da rosso diretto. Mimare lo schianto di un aereo legato a Superga è un fallo da espulsione immediata nel campionato dei valori. Non c’entra la maglia, non c’entrano i colori: c’entra il rispetto per una storia che tocca il cuore del calcio italiano.

Il 4 maggio 1949 non è una data qualunque, è il giorno in cui l’Italia si fermò. Il Grande Torino non era solo una squadra straordinaria, era un simbolo. Trasformare quella tragedia in un gesto di dileggio è come scherzare sulla linea di fondo della dignità. E quando la dignità viene calpestata, il fischietto deve suonare: le sanzioni esistono per questo. Dodici mesi di Daspo sono un segnale chiaro: certe derive non troveranno spazio né sugli spalti né nel nostro racconto del gioco.

Le immagini hanno fatto il giro dei social in un attimo. È il calcio 3.0: tutto viene ripreso, tutto si amplifica, nel bene e nel male. In questo caso, l’onda digitale ha fatto da VAR etico, mettendo a fuoco un episodio che non poteva passare sotto traccia. La fiammata dell’indignazione non è bastata da sola, ma ha accelerato la risposta di chi deve vigilare sulla sicurezza e sul decoro delle manifestazioni sportive. E allora la domanda è: davvero servono le telecamere per ricordarci dove passa il confine tra tifo e vilipendio?

Un Daspo non è un trofeo per chi lo emette, è un cartellino esposto alla pubblica piazza per ribadire una regola semplice: negli stadi si tifa, non si offende la memoria. Dodici mesi di stop sono una misura netta, proporzionata all’idea di garantire la sicurezza negli stadi e disinnescare comportamenti potenzialmente esplosivi. Non parliamo di goliardia: parliamo di un gesto che ha evocato un lutto nazionale. Se il calcio è un linguaggio, certe parole sono tabù perché feriscono, e quando si ferisce si paga fallo.

Chi vive di pallone lo sa: le partite più calde sono anche quelle che ci raccontano meglio. L’Allianz Stadium, l’8 novembre, è stato teatro di un incrocio di emozioni, come sempre in un derby. Ma la partita invisibile, quella giocata tra memoria e rispetto, è la vera cartina tornasole della maturità di una comunità sportiva. Indignazione trasversale: questa la definizione più onesta di ciò che è seguito. Significa che il calcio, quando vuole, sa farsi comunità. Sa essere squadra, anche fuori dal campo, contro la stupidità.

Il tifo è istinto, pancia, urlo liberatorio. Ma lo stadio è casa comune. E in una casa comune certi gesti non passano. Se la curva è il dodicesimo uomo, allora il dodicesimo uomo deve conoscere il copione: sostenere i propri, rispettare gli avversari, proteggere la storia. Superga non si tocca. Non è folklore, non è materiale da sfottò, non è passatempo da smartphone. È una pagina sacra del nostro calcio, che impone silenzio e rispetto anche a chi è venuto allo stadio solo per cantare più forte.

Quattro tifosi della Juventus resteranno fuori per un anno: un segnale, un monito, una lezione. Non c’è bisogno di scomodare cataloghi di sanzioni per capire il senso di questa decisione: la sicurezza negli stadi passa anche da qui, dal mettere un argine alle provocazioni che possono incendiare gli animi. Il calcio ha mille metafore: è arte e battaglia, strategia e cuore. Ma non è, e non sarà mai, il luogo dove la memoria viene presa a pallonate.

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