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21 Novembre 2025 - 17:53
Non solo la famiglia di Palmoli: anche Lauriano, nel Chivassese, ha avuto il suo caso di minori che vivevano in un bosco
La storia della famiglia che vive nel bosco di Palmoli, in provincia di Chieti (Abruzzo), è esplosa sulle prime pagine, ha acceso i talk show, ha diviso l’opinione pubblica, ha scatenato raccolte firme e interventi politici. Ed è una storia che, inevitabilmente, spalanca una finestra su un’altra vicenda recente, diversa nei contorni ma legata dallo stesso interrogativo di fondo: che cosa succede quando dei bambini crescono fuori da tutto, invisibili o quasi, finché un evento imprevisto non porta lo Stato davanti alla loro porta? È per questo che oggi torniamo a parlare di Lauriano, nel Chivassese. Non perché i due casi siano identici — non lo sono affatto — ma perché l’attualità di Palmoli costringe la memoria a tornare lì, a quella cascina isolata in cui, pochi mesi fa, due bambini vivevano senza nome, senza scuola, senza documenti. Due storie lontane, due famiglie diverse, due mondi che non si assomigliano. Eppure, raccontandole insieme, la trama comune si delinea da sola.
A Palmoli la scena si apre nella notte tra il 20 e il 21 novembre. È quasi ironico, se non fosse tragico: il 20 novembre è la Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, ma in Abruzzo tre bambini vengono portati via dalla loro casa nel bosco. Non è uno sfratto, non è un blitz, non è un atto improvviso. È l’esecuzione di un provvedimento del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila: allontanamento urgente e collocamento dei piccoli in una struttura protetta insieme alla madre. Il padre resta fuori, letteralmente e simbolicamente. Nathan Trevaillon, britannico, 51 anni, lo dice con una frase che è rimbalzata ovunque: «È stata la notte più brutta della mia vita». Con lui vive Catherine Birmingham, australiana, 45 anni, la madre dei bambini. La loro è una scelta radicale: abitare in un casolare in mezzo al bosco, senza acqua corrente, senza impianti certificati, senza scuola, senza televisioni, senza social. La definiscono una vita “libera”, un’educazione naturale, un mondo semplice e tranquillo lontano dalle pressioni del sistema. Dicono che i figli sono felici, che non manca loro niente, che la modernità è un inganno, che la natura dà tutto. E il bosco, nella loro versione della storia, è un luogo di protezione, non di pericolo.
Il Tribunale, però, scrive un’altra storia. Nel provvedimento si parla di “pericolo per l’integrità fisica e psicologica dei minori”, di “lesione della vita di relazione”, di mancata socializzazione in un’età chiave per lo sviluppo. Non solo: le autorità hanno documentato l’assenza di agibilità dell’abitazione, la mancanza di verifiche sugli impianti, il rifiuto dei genitori di consentire controlli sanitari obbligatori, e soprattutto la scelta di non mandare i bambini a scuola, sostituita da un percorso educativo non tracciabile, non certificato e – secondo i giudici – insufficiente. La storia, però, non comincia quella notte. Un episodio precedente – un’intossicazione da funghi che aveva portato tutta la famiglia in ospedale – aveva acceso l’attenzione dei servizi. Da lì erano partiti monitoraggi, colloqui, sopralluoghi. E, secondo ciò che emerge dagli atti, anche conflitti: il padre e la madre avrebbero rifiutato più volte la presenza delle istituzioni, respingendo ogni intervento.
La notte del 20 novembre, mentre in tutto il mondo si celebrano i diritti dell’infanzia, tre bambini vengono caricati in macchina e condotti altrove. Da quel momento si apre un vortice mediatico. Matteo Salvini interviene pubblicamente, parla di bambini “rubati”, annuncia che li andrà a trovare. Nasce una petizione su Change.org che chiede di “salvare la famiglia che vive nel bosco”. Migliaia di firme si accumulano. L’opinione pubblica si spacca. C’è chi difende il diritto dei genitori a una vita alternativa. C’è chi difende la decisione dei giudici. In mezzo, come sempre, ci sono i minori.

I genitori dei bambini di Palmoli
Questa è la cornice di Palmoli. Ma per capire perché oggi si parla di Lauriano bisogna trasferirsi in Piemonte, sulle colline sopra Chivasso, qualche mese indietro.
Anche qui una casa isolata, anche qui un bosco, anche qui dei bambini scoperti quasi per caso. Ma la storia è un’altra. Non ci sono pannelli solari, non ci sono scelte radicali rivendicate pubblicamente, non c’è una narrazione idealizzata della natura.
A Lauriano c’è un cascinale raggiungibile solo percorrendo un sentiero sterrato. C’è una famiglia olandese, padre e madre, arrivati in Italia anni fa. E soprattutto ci sono due bambini di 6 e 9 anni che lo Stato non sapeva neppure esistessero. Nessun nome registrato all’anagrafe. Nessun documento. Nessuna tessera sanitaria. Nessun pediatra. Nessuna vaccinazione. Nessuna iscrizione scolastica. Per lo Stato italiano quei bambini erano letteralmente invisibili.
La loro esistenza emerge non da un’indagine, non da una segnalazione, ma da un’alluvione. La sindaca Mara Baccolla firma un’ordinanza di sgombero dopo il maltempo. I carabinieri vanno a notificare l’atto. Entrano nel cascinale e trovano i due piccoli. Sono sporchi, spaventati, ancora col pannolino nonostante l’età. Non parlano quasi. Non sanno leggere o scrivere. Gli operatori del Ciss di Chivasso vengono chiamati. E quello che trovano all’interno della casa – condizioni igienico-sanitarie precarie, assenza totale di stimoli, nessun contatto con altri minori – porta subito a un provvedimento di urgenza.
Il padre, 54 anni, scultore, prova a giustificarsi. Dice che i figli seguono corsi online. Che hanno giochi, computer, strumenti musicali. Dice che sono arrivati in Italia solo da due settimane. Gli atti del Tribunale dei Minorenni, però, raccontano altro: “incuria”, “isolamento totale”, “assenza di stimolazione cognitiva”, “inesistenza della figura materna”, “incapacità genitoriale nel garantire assistenza minima”. I bambini, scrivono i giudici, non possono tornare in famiglia. Vengono collocati in comunità. Il Ciss provvede a procurare documenti, medico, iscrizione scolastica. La sindaca parla di una vicenda delicata, si dice preoccupata per l’equilibrio dei piccoli. Nessuna ondata mediatica, nessun leader politico in pellegrinaggio, nessuna petizione virale. Solo la cronaca, nuda, e un paese che si chiede come sia possibile che due bambini crescano per anni senza che nessuno se ne accorga.
Questa è la cornice di Lauriano.
Oggi, raccontare Palmoli richiama il caso di Lauriano. E raccontare Lauriano illumina Palmoli da un’altra angolatura.
Nel caso abruzzese, i genitori rivendicano una scelta consapevole: “Vogliamo crescere i nostri figli nel bosco, liberi, felici”. Parlano di un modello alternativo, di un’ostilità del sistema verso chi vive fuori dalle regole ordinarie. La loro comunità online li sostiene, li difende, amplifica la storia.
La petizione su Change.org li descrive come una famiglia amorevole, perseguitata dallo Stato, vittima di un intervento ingiusto. Il linguaggio è diretto, emotivo, militante: “nessuno tocchi la famiglia che vive nel bosco”. È una narrazione identitaria, che trasforma il caso giudiziario in una battaglia di principi.
A Lauriano tutto questo non c’è. Non ci sono difese ideologiche. Non c’è retorica sulla natura. Non c’è un movimento d’opinione.
In entrambe le storie, però, c’è un dato che attraversa ogni discorso e mette tutto in prospettiva: i minori non possono proteggersi da soli. Che vivano in un bosco per scelta dei genitori o in un cascinale per incuria, il risultato è lo stesso: la loro voce non conta, il loro accesso al mondo dipende dagli adulti.
In Italia esistono due grandi equivoci quando si parla di infanzia. Il primo è credere che basti l’amore dei genitori. Il secondo è pensare che bastino le norme dello Stato. Nessuno dei due, da solo, protegge un bambino. La storia di Palmoli e quella di Lauriano ce lo ricordano nello stesso modo, con due fotografie diverse ma con la stessa domanda di fondo: che cosa vuol dire davvero garantire un’infanzia?
Catherine e Nathan rivendicano una libertà educativa assoluta, un rapporto esclusivo con la natura, un mondo senza scuola e senza verifiche. E forse, nel loro sguardo, i figli erano felici. Ma la felicità non sostituisce la socialità, la salute, l’apprendimento, il diritto a crescere nel mondo reale, non solo in un’idea di mondo. A Lauriano, invece, non c’era nemmeno il velo romantico dell’alternativa: c’erano due bambini sprovvisti persino dell’identità giuridica, due infanzie sottratte alla vita pubblica.
La tutela dei minori non è un’ingerenza. È un dovere. E non per difendere le istituzioni, ma per difendere loro: i piccoli. Quelli che non scelgono dove crescere, quelli che non decidono se iscriversi a scuola, quelli che non possono dire “non voglio restare qui”. La società li deve vedere, prima ancora dello Stato. E se non li vede, qualcuno fallisce.
Ecco perché parlare oggi di Lauriano non serve a paragonare due famiglie o due modelli di vita. Serve a ricordarci che, ogni volta che una porta si apre per caso — una notte nel bosco, un’alluvione sulla collina — dietro ci sono bambini che nessuno aveva mai guardato davvero. E che l’unico criterio non dovrebbe essere la libertà dei genitori o la forza dello Stato, ma la voce silenziosa dei minori. Quella che nessuno ascolta finché non è troppo tardi. Quella che, senza protezione, resta sola nel bosco o persa in un cascinale.
E che oggi, finalmente, qualcuno prova a sentire.
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