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Cronaca

Famiglia che vive nel bosco, bambini portati via nella notte. La storia che scuote l'Italia intera

Tre fratelli prelevati all’alba: la decisione dei giudici e la lunga notte di Palmoli. Lanciata una raccolta firme online

Famiglia che vive nel bosco

Catherine Birmingham e Nathan Trevaillon

Li hanno presi così, nella notte, mentre dormivano in quella casa nel bosco che per loro era semplicemente “casa”. Tre bambini — una bambina di otto anni e due gemelli di sei — sono stati allontanati dalla loro famiglia su ordine del Tribunale per i Minorenni dell’Aquila. Una scelta drastica, eseguita all’alba, quando i carabinieri hanno raggiunto il casolare isolato in cui vivevano da anni con i genitori, Catherine Birmingham e Nathan Trevaillon, decisi a portarli via per metterli al sicuro. O almeno, è così che lo Stato interpreta la tutela.

Il padre, rimasto solo fuori dalla struttura protetta in cui ora si trovano i piccoli insieme alla madre, racconta solo questo: «È stata la notte più brutta della mia vita». Non lo dice per retorica, lo dice perché a una famiglia che viveva in un equilibrio fragile ma, a detta loro, felice, è stato reciso l’unico filo che li teneva uniti.

La storia parte da lontano. I genitori avevano scelto un’esistenza alternativa: una casa senza utenze tradizionali, energia solare, acqua dal pozzo, nessuna televisione, nessun social. I bambini non frequentavano la scuola pubblica, non avevano compagni, non vivevano il confronto quotidiano con i pari. Crescevano — sostengono madre e padre — “liberi nella natura”, imparando con ciò che li circondava, seguendo un percorso educativo privato non riconosciuto. Per i genitori era una scelta, per i giudici un rischio.

L’ordinanza parla chiaro: secondo il Tribunale c’è “pericolo per l’integrità fisica e psicologica dei minori”, legato alle condizioni abitative, all’assenza di istruzione tradizionale, al rifiuto dei controlli sanitari obbligatori, alla mancanza di socializzazione in un’età in cui la scuola non è solo didattica, ma identità, relazione, crescita. Il provvedimento parla di “lesione della vita di relazione”, una formula giuridica che inquadra un tema semplice: per crescere servono anche gli altri.

La casa nel bosco, per i magistrati, non garantiva sicurezza: niente agibilità, niente verifiche sugli impianti, nessuna certificazione. E poi quell’episodio che aveva acceso il campanello d’allarme mesi fa: un’intossicazione da funghi che aveva portato l’intera famiglia in ospedale. Da lì, la segnalazione ai servizi sociali, le verifiche, i sopralluoghi, i contrasti con i genitori, sempre più rigidi nel rifiutare ogni intervento esterno. Fino alla decisione finale: allontanamento immediato e affidamento temporaneo a una struttura protetta.

E così, nel cuore della notte, i tre bambini sono stati caricati in auto e portati via. Non verso un luogo sconosciuto, ma verso un mondo che non avevano mai sperimentato: una comunità, educatori, compagni, regole. Un trauma, inevitabile. “Stanno distruggendo la vita di cinque persone serene”, accusa il padre. Ma dall’altra parte c’è lo Stato che ribatte: “Non basta essere amati. I bambini devono essere anche tutelati”.

La vicenda, immediatamente, è diventata nazionale. Non tanto per i dettagli giudiziari, ma per ciò che la storia smuove: che cosa significa davvero ‘proteggere un bambino’? È tutela lasciare una famiglia vivere fuori da tutto, o è tutela intervenire quando manca ciò che la maggior parte delle persone considera essenziale? È libertà educativa o è abbandono istituzionale? È scelta di vita o è rischio?

Il caso ha anche acceso la politica. C’è chi parla di “intervento necessario”, chi grida alla “sottrazione ingiusta”, chi evoca la libertà educativa, chi ricorda che i minori non possono essere esclusi dal mondo per volontà degli adulti. Nel mezzo, come sempre, ci sono loro: tre bambini che avevano imparato a riconoscere il fruscio degli alberi meglio delle voci dei coetanei.

E poi c’è la data. Perché tutto questo è avvenuto giovedì 20 novembre, che non è un giorno qualunque: è la Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia. Una ricorrenza che invita a proteggere ciò che di più fragile abbiamo, che chiede allo Stato di essere vigile, presente, responsabile. Qui, quella data diventa un contrappunto doloroso: mentre il Paese celebrava i diritti dei bambini, tre bambini venivano separati dalla loro vita quotidiana.

Coincidenza? Forse. Simbolo? Sicuramente. Perché questa vicenda — qualunque sarà il suo esito nelle prossime udienze — ci ricorda che dietro ogni principio c’è sempre una storia concreta, fatta di scelte difficili, ferite e responsabilità.

E il 20 novembre, quest’anno, non ha fatto eccezione.

Una raccolta firme per salvare la famiglia

Intanto, mentre Palmoli si interroga e la politica alza la voce, sul web corre una contro-narrazione altrettanto potente. Su Change.org è nata una petizione che in pochi giorni ha raccolto migliaia di firme. È un testo carico di toni emotivi, scritto come un appello diretto a “salvare la famiglia che vive nel bosco”. L’immagine che i sostenitori restituiscono è quella di due genitori, Catherine e Nathan, descritti come persone pacifiche, innamorate dell’Italia e della vita nella natura, che avrebbero scelto il bosco non per necessità ma per convinzione: niente animali da mangiare, niente città, solo una comunità familiare in equilibrio con l’ambiente.

Nel racconto dei firmatari non ci sono fragilità, non ci sono rischi, non ci sono omissioni: c’è piuttosto l’idea di un sistema che avrebbe “messo gli occhi” sulla famiglia, trasformando una vita alternativa in un caso giudiziario. La petizione parla apertamente di “persecuzione”, di una coppia “non povera, non disagiata, solo diversa”, che si sarebbe vista togliere la potestà genitoriale senza un reale motivo. La linea è netta, senza sfumature: «Con quale diritto si toccano questi bambini? Giù le mani dalla famiglia che vive nel bosco!».

E ancora, con un tono da manifesto: «NESSUNO TOCCHI LA FAMIGLIA CHE VIVE NEL BOSCO». Uno slogan semplice, ripetuto, immediatamente riconoscibile. È la versione specchiata e opposta dell’ordinanza del Tribunale: da una parte la preoccupazione istituzionale per sicurezza, socialità e salute; dall’altra la mobilitazione popolare che difende una scelta di libertà come se fosse un diritto assoluto.

Qualunque sia la verità giudiziaria che emergerà nelle prossime settimane, questa reazione dice già molto: la vicenda è diventata un simbolo. Per qualcuno lo Stato che interviene troppo. Per altri lo Stato che interviene tardi. Per moltissimi, semplicemente, una storia in cui tre bambini pagano il prezzo più alto.

E l’eco della Giornata dei diritti dell’infanzia — quella coincidenza del 20 novembre che ha aperto questa storia — continua a vibrare anche qui, tra un hashtag e una firma digitale.

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