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Rottura sull’ex Ilva. Mentre il confronto si arena, torna lo spettro della chiusura

Sindacati verso lo sciopero unitario dopo il no di Palazzo Chigi al ritiro del piano contestato

Il ministro Urso all'ex Ilva di Taranto

Il ministro Urso all'ex Ilva di Taranto

Il secondo incontro in una settimana a Palazzo Chigi avrebbe dovuto segnare un passo avanti nella trattativa sull’ex Ilva, ma si è trasformato invece nel punto di rottura definitivo. Governo, commissari e sindacati sono usciti dal tavolo con posizioni sempre più distanti e con una decisione irrevocabile: lo sciopero unitario di Fim, Fiom e Uilm. Ventiquattro ore di stop che coinvolgeranno da domani tutti gli stabilimenti del gruppo, aprendo una fase di tensione altissima in un dossier già logoro e fragile.

Al centro della frattura c’è il piano presentato dall’esecutivo, che secondo le sigle metalmeccaniche sancirebbe nient’altro che una progressiva dismissione dell’area industriale. I sindacati parlano apertamente di un progetto che porterebbe fino a 6.000 lavoratori in cassa integrazione e che non offrirebbe alcuna reale prospettiva industriale. L’accusa è durissima: un ridimensionamento mascherato, un percorso verso il rallentamento degli impianti e, di fatto, verso la chiusura.

Il governo respinge questa lettura, sostenendo che il piano non allarga ulteriormente il perimetro della cassa integrazione e che, al contrario, accoglie “la principale richiesta” avanzata dalle parti sociali. Nessun aumento, dunque, della cig, ma l’attivazione di percorsi di formazione anche per coloro che vi sono già inseriti. Un modo, spiegano da Palazzo Chigi, per preparare il personale alla produzione dell’acciaio tramite le nuove tecnologie green, che dovrebbero guidare la trasformazione dello stabilimento.

Gli elementi numerici, però, non tranquillizzano i sindacati. Già al precedente incontro si era parlato dell’ingresso di 1.550 persone nella nuova fase di formazione/cassa, da aggiungere ai 4.450 lavoratori attualmente in cig. A gennaio la platea coinvolta raggiungerebbe dunque quota 6.000, e per la Uilm questo è il segnale di un collasso imminente. Il segretario generale Rocco Palombella avverte che dal primo marzo «non ci saranno più 6.000 lavoratori in cassa integrazione, ma ci sarà la totalità dei lavoratori», parlando apertamente di un «disastro» e richiamando il governo alle sue responsabilità.

Un allarme condiviso dalla Fim-Cisl, con Ferdinando Uliano che definisce il piano «di fatto una riduzione delle attività, un passo verso la chiusura, per noi inaccettabile». Sulla stessa linea anche la Fiom-Cgil, che per voce di Michele De Palma ribadisce: «Abbiamo chiesto alla presidenza del Consiglio di ritirare il piano e di far intervenire direttamente la presidente Giorgia Meloni. Ci è stato risposto di no e noi abbiamo deciso di dichiarare sciopero». Una scelta immediatamente sostenuta dal leader della Cgil, Maurizio Landini, secondo cui «il governo deve ritirare il piano proposto e la presidente del Consiglio deve intervenire direttamente».

Il governo, pur difendendo il proprio progetto, ha illustrato lo stato delle trattative per la vendita del gruppo, confermando contatti con Bedrock Industries, Flacks Group e con un terzo soggetto il cui nome non viene ancora rivelato. L’Ugl parla inoltre dell’interessamento di un quarto operatore extra-Ue, «un elemento di novità» capace di rimettere in gioco equilibri e scenari.

Sul fronte sindacale non c’è solo la protesta delle confederazioni storiche. Anche l’Usb entra in rotta di collisione con l’esecutivo, denunciando che il piano governativo «conferma la dismissione» e che le 93.000 ore di formazione previste per i 1.550 lavoratori coinvolti sono un intervento “utile solo a coprire l’assenza di attività produttive”. Nessuna prospettiva, nessun rilancio industriale: solo un ammortizzatore che, secondo l’Unione Sindacale di Base, copre il vuoto lasciato dal fermo degli impianti.

E così, mentre sindacati e governo rimangono fermi sulle rispettive posizioni, l’unico movimento concreto è quello verso lo sciopero generale dell’ex Ilva. Domani si fermeranno i lavoratori di Genova, mentre a Taranto l’assemblea di giovedì stabilirà una data che, con ogni probabilità, sarà quella di venerdì. Sul tavolo, intanto, resta la richiesta più netta: l’ingresso diretto dello Stato nella governance del gruppo, l’unico intervento che, secondo le sigle, potrebbe davvero invertire la rotta.

Il braccio di ferro, per ora, non accenna a sciogliersi. E l’acciaio italiano, già provato da anni di crisi, sospensioni, commissariamenti e incertezze, resta ancora una volta in bilico tra ipotesi industriali e scontro politico-sindacale. Con migliaia di lavoratori che, al netto delle promesse di formazione, continuano a vedere avvicinarsi lo scenario che più temono: quello di un futuro senza fabbrica.

L'incontro del 18 novembre a Palazzo Chigi

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