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Due ragazzini uccisi in Cisgiordania. Il sindaco di Ivrea scrive a Giorgia Meloni. "Si restituiscano quei corpi! "

Il sindaco scrive al Governo e alla città gemella dopo l’uccisione dei due ragazzi palestinesi: denuncia le violenze, chiede il riconoscimento della Palestina e spinge sull’aiuto per la cisterna d’acqua.

Due bambini uccisi in Cisgiordania. Il sindaco di Ivrea scrive a Giorgia Meloni. "E' ora di dire basta!"

Due bambini uccisi in Cisgiordania. Il sindaco di Ivrea scrive a Giorgia Meloni. "E' ora di dire basta!"

Sabato scorso, al presidio per la pace di Ivrea, quando Cadigia Perini ha afferrato il microfono, non c’era spazio per discorsi generici. Ha pronunciato un nome che in città non è mai passato inosservato: Beit Ummar, il villaggio palestinese a nord di Hebron, gemellato con Ivrea dal 2003. E l’appello è stato diretto come uno schiaffo: “Ivrea deve fare qualcosa adesso, non limitarsi alla solidarietà a parole. Non può voltarsi dall'altra parte...”. Non un invito, un ultimatum morale.

L’urgenza era palpabile. Da mesi Beit Ummar vive in una morsa che non allenta: campi agricoli incendiati, case ridotte in macerie, check-point che si moltiplicano, incursioni notturne che scandiscono la vita più dei rintocchi delle campane. Gli attivisti eporediesi che seguono quotidianamente la situazione non parlano più di “tensione”: parlano di una comunità sfinita, logorata, colpita con regolarità chirurgica. E i reportage degli ultimi mesi sono ancora più netti: Beit Ummar è “devastata”.

Poi sono arrivati gli ultimissimi fatti, che hanno tolto ogni residuo alibi al silenzio. Il 12 novembre l’esercito israeliano ha ordinato la confisca di oltre 38 dunam di terreni – quasi quattro ettari – nella zona nord-occidentale del villaggio. Non sabbia o pietrisco, ma campi veri: Dahr Aftima, Al-Yanbou, Khillat Al-Aran, Wadi Ashkheit, Khillat Al-Furn, Sidr Safa. Terreni lavorati da generazioni, piantati a vigneti, mandorli e ulivi. Per molte famiglie, l’unico reddito. Una settimana prima, altri 30 dunam erano già stati sottratti nell’area di Beit al-Baraka e poi consegnati, di fatto, all’espansione dei coloni. In meno di un mese, Beit Ummar ha perso pezzi interi del proprio corpo economico, come se qualcuno la stesse tagliando a fette.

Ma il colpo più duro è arrivato il giorno dopo. 13 novembre. Una data che a Beit Ummar ricorderanno a lungo. Due adolescenti – Mohamed Abu Ayyash e Bilal Baran, quindici o sedici anni appena – uccisi dalle forze armate israeliane all’ingresso del villaggio. I testimoni parlano di una scena che non lascia spazio a interpretazioni: colpi sparati lungo la strada che porta a Karmei Tzur, l’area immediatamente dichiarata “zona militare chiusa”, ambulanze respinte, soccorritori tenuti lontani. I corpi caricati su un mezzo e portati via. Famiglie lasciate nel vuoto, senza un luogo, un tempo, un rito per salutare i propri figli.

cisgiordania

La versione dell’esercito parla di “cocktail Molotov in procinto di essere lanciati”. Nessun ferito tra soldati e coloni, nessuna conferma indipendente, nessuna indagine accessibile. Dall’altra parte, autorità palestinesi, residenti, osservatori, ong, tutti allineati nella stessa drammatica definizione: “esecuzione sul campo”. Un altro tassello di una strategia repressiva che da settimane colpisce in modo sistematico i minori e i giovani della Cisgiordania. A Beit Ummar, anche prima di questi due omicidi, si contavano già decine di detenzioni, perquisizioni notturne e incursioni nei campi agricoli.

È dentro questa cornice che va letto l’appello arrivato da piazza Ottinetti. Cadigia Perini non ha ricordato solo il gemellaggio: ha messo Ivrea di fronte a una responsabilità. Perché la città, quel patto con Beit Ummar, l’ha firmato ventidue anni fa, quando decise di non voltarsi dall’altra parte. Negli ultimi mesi il gruppo del presidio ha rilanciato una raccolta fondi per realizzare una cisterna d’acqua, insieme alla Ong Vento di Terra, per dare al villaggio un minimo di autonomia idrica in un territorio in cui l’acqua è razionata e controllata.

L’assessora Patrizia Dal Santo, che segue i rapporti con il villaggio, ha confermato che il progetto procede, anche se rallentato dal passaggio di consegne con il nuovo sindaco. Ma la cooperazione, quella reale, quella fatta di persone e non di carte bollate, non si è mai fermata. Aveva però bisogno di una presa di posizione chiara. E quella presa di posizione è arrivata.

Oggi il sindaco Matteo Chiantore ha firmato due lettere che pesano come atti politici e come atti morali. La prima, indirizzata al sindaco di Beit Ummar, non si limita al cordoglio: parla di “fatto gravissimo”, denuncia “una serie di aggressioni contro persone, abitazioni e campi”, ricorda il progetto idrico finanziato dagli eporediesi e ribadisce che Ivrea non ha alcuna intenzione di abbandonare il villaggio gemellato in un momento simile.

La seconda lettera, quella più dura, è indirizzata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla presidente del consiglio Giorgia Meloni, al Ministro Antonio Tajani e all’ambasciatore israeliano Jonathan Peled. Non è diplomatica: è un atto d’accusa. Ripercorre vent’anni di rapporti tra Ivrea e la Palestina, elenca i fatti arrivati da Beit Ummar – l’uccisione di Bilal e Mohamed, la trattenzione dei loro corpi, gli attacchi ai contadini, gli incendi, le aggressioni dei coloni “senza che l’esercito intervenga per fermarli” – e arriva a chiedere ciò che spesso le istituzioni si rifiutano anche solo di nominare: una condanna ferma delle politiche israeliane, un intervento contro gli atti dei coloni e il riconoscimento dello Stato di Palestina nei confini del 1967.

Le ultime righe sono forse le più pesanti: Chiantore chiede ufficialmente al governo israeliano di restituire i corpi dei due adolescenti alle famiglie e di mettere fine alla pratica della trattenzione dei cadaveri. Una richiesta che, in quei territori, significa toccare il nervo più scoperto della politica militare israeliana.

In poche ore, Ivrea è passata dalla solidarietà emotiva alla denuncia politica.
E lo ha fatto citando fatti, nomi, date, responsabilità.
Quello che resta ora, più delle parole, è la sensazione che il filo tra Ivrea e Beit Ummar non sia mai stato così teso – e così necessario.

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