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Esteri
14 Novembre 2025 - 19:15
La scena che si presenta all’alba è quella che rimane impressa molto più del fumo che continua a salire lento dalle pareti: una macchia nera sul pavimento, il profumo acre della moquette bruciata, il crepitio smorzato delle fibre ancora calde. E poi le pagine del Corano, non più libro ma fragili scaglie di carta, raccolte con mani tremanti da un fedele che si muove in silenzio, come se temesse di disturbare ciò che resta della notte. Siamo tra Kifl Hares e Deir Istiya, nel governatorato di Salfit, in Cisgiordania. Qui, davanti alla Hajja Hamida Mosque, un gruppo di coloni israeliani ha versato liquido infiammabile all’ingresso e appiccato il fuoco, lasciando sulle pareti tre frasi in ebraico: “non abbiamo paura”, “ci vendicheremo ancora”, “continuate a condannare”.
È un attacco rapido, chirurgico nella sua crudeltà, che colpisce un luogo di culto ma vuole parlare a molti altri. Lo si capisce dai dettagli: la scelta dell’alba, l’utilizzo della benzina, i graffiti lasciati a firma, il fuoco che ha raggiunto copie del testo sacro, annerendole e sbriciolandole. È il segno di una violenza che non nasce dal nulla e non finisce sul sagrato di una piccola moschea rurale.
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Perché poche ore prima, a una trentina di chilometri più a sud, un episodio ancora più grave aveva scosso Beit Ummar. Due ragazzini palestinesi, Mohammad Mahmoud Abu Ayash e Bilal Bahaa Bar’an, sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco sparati dalle forze israeliane nella parte meridionale della cittadina. Lo riferisce l’agenzia palestinese WAFA, secondo cui i militari hanno aperto il fuoco senza preavviso, poi hanno sequestrato i corpi dei due giovanissimi e dichiarato l’area “zona militare chiusa”, impedendo ai soccorsi di avvicinarsi.
La tragedia non è un episodio isolato ma, come denuncia l’attivista locale Mohammed Awad, l’ennesima manifestazione di una pressione costante che si abbatte sui palestinesi in tutta la Cisgiordania. Awad parla apertamente di un’intensificazione delle incursioni, di una presenza militare crescente nelle aree agricole, di una strategia fatta di raid, pestaggi, arresti e aggressioni dei coloni, soprattutto nei terreni adiacenti alla colonia illegale di Karmei Tzur, in continua espansione. “Si moltiplicano – dice – con l’obiettivo di spingere i palestinesi ad abbandonare le loro terre”.
L’IDF offre una versione completamente opposta: i due ragazzi, sostiene, stavano preparando un attacco con bottiglie Molotov e sono stati “neutralizzati” in un’imboscata condotta dal Battaglione 636. Ma finora non sono state diffuse immagini, prove materiali o dettagli indipendenti a supporto di questa ricostruzione. La zona resta chiusa e le due versioni continuano a correre parallele, senza punti di contatto.
Sul piano internazionale, la condanna arriva rapida. Dal Palazzo di Vetro, il portavoce del Segretario generale ONU, Stéphane Dujarric, definisce “totalmente inaccettabili” gli attacchi ai luoghi di culto e ricorda a Israele — potenza occupante, secondo il diritto internazionale — l’obbligo di proteggere i civili e perseguire i responsabili. Giordania, Germania e Svizzera chiedono apertamente indagini trasparenti, una richiesta che si ripete ormai a ogni nuovo episodio.
Il quadro generale, intanto, peggiora. Il bollettino dell’OCHA per ottobre 2025 registra 264 attacchi di coloni in un solo mese: la cifra più alta da quando l’ONU ha iniziato a monitorare il fenomeno, nel 2006. Da gennaio a ottobre si contano 1.500 episodi, pari al 15% di tutti quelli documentati negli ultimi vent’anni. Numeri che non si limitano a descrivere una tendenza, ma raccontano un’evoluzione: sempre più aggressioni fisiche, più danni ai raccolti, più incursioni nei villaggi, più intimidazioni. Durante la stagione delle olive, colonna vertebrale dell’economia rurale palestinese, oltre 4.000 alberi sono stati vandalizzati in 77 villaggi, con più di 140 feriti.
Le reazioni interne israeliane non sono meno significative. Il presidente Isaac Herzog parla di attacchi “scioccanti e gravi”; il capo di Stato maggiore Eyal Zamir di “linea rossa superata”. Il generale Avi Bluth, responsabile del Comando Centrale, definisce “anarchiche” le azioni di gruppi estremisti che arrivano persino a danneggiare mezzi militari. Ma queste parole, per quanto inedite, arrivano in un contesto in cui le indagini raramente progrediscono e le condanne sono l’eccezione, non la regola.
Nel frattempo, la tregua in vigore a Gaza rimane fragile e permeabile a scosse. Nella sera del 13 novembre, Israele ha ricevuto tramite il Comitato Internazionale della Croce Rossa la salma del 73enne Meny (Menachem) Godard, ucciso nel Kibbutz Be’eri il 7 ottobre 2023 e portato a Gaza. Rimangono nella Striscia i corpi di altri tre ostaggi. Gli scambi di resti umani — un ostaggio israeliano per quindici palestinesi — sono diventati uno dei cardini più delicati del cessate il fuoco, un terreno dove diplomazia e dolore si intrecciano senza tregua.
Per Ivrea, tutto questo non è solo un frammento di geopolitica lontana. Beit Ummar è gemellata con Ivrea da oltre vent’anni, e negli ultimi mesi il "Comitato per la pace" e l'Amministrazione comunale hanno riattivato quel rapporto con nuove iniziative, raccolte fondi per l’accesso all’acqua, momenti di confronto pubblico, attività con scuole e associazioni.
Questo rende ogni notizia che arriva da lì più vicina, quasi familiare: due ragazzini uccisi, una moschea bruciata, campi vandalizzati non sono più eventi astratti, ma episodi che coinvolgono — indirettamente ma realmente — una comunità “sorella” legata alla nostra attraverso un patto di solidarietà e impegno reciproco.
E allora ciò che accade in Cisgiordania non resta confinato nelle agenzie. A Ivrea diventa una domanda:che cosa significa essere gemellati con chi vive ogni giorno sotto occupazione, violenza, insicurezza?
E quale responsabilità comporta, per chi osserva da qui, non distogliere lo sguardo?
Forse proprio questa: continuare a raccontare.
E non lasciare che la distanza trasformi l’indifferenza in normalità.
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