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Persone scomparse: il caso Venturelli e l’Italia che cerca. Perché la riforma non può più aspettare

La politica ascolta famiglie e investigatori: nasce la proposta di un nucleo investigativo nazionale

Alessandro Venturelli, il ragazzo svanito nel nulla nel 2020 e indicato in decine di segnalazioni tra le strade di Torino

Alessandro Venturelli, il ragazzo svanito nel nulla nel 2020 e indicato in decine di segnalazioni tra le strade di Torino

C’è una frase che ritorna, ostinata, ogni volta che si parla di persone scomparse: «Un figlio non si archivia». L’aveva pronunciata pochi giorni fa, davanti alle telecamere, Roberta Carassai, la madre di Alessandro Venturelli, il ragazzo svanito nel nulla nel 2020 e indicato in decine di segnalazioni tra le strade di Torino. Una frase semplice, quasi sussurrata, che però oggi sembra risuonare dentro le mura di Montecitorio più forte del fragore dei microfoni. Perché se c’è una cosa certa, dopo il convegno che si è svolto oggi nella Sala della Regina della Camera, è che l’Italia non può più permettersi di affrontare le scomparse come un mosaico di competenze sparse e strumenti obsoleti.

Oggi, a Roma, davanti a magistrati, investigatori, associazioni di familiari, esperti e parlamentari, si è messo sul tavolo tutto ciò che non funziona. E molto di ciò che potrebbe finalmente funzionare, se la politica decidesse davvero di farlo.
E mentre si ascoltavano numeri, proposte e lacune, tornavano alla mente immagini recenti: la madre di Alessandro che si muove tra i portici di Torino, mostrando una fotografia ai senzatetto; i volontari che setacciano le vie del centro; le segnalazioni che si moltiplicano in poche ore. Un’Italia che cerca da sola, mentre lo Stato si organizza lentamente. Troppo lentamente.

È da qui che parte la domanda di fondo del convegno di oggi: quanto vale una vita quando scompare?
E soprattutto: quanto tempo possiamo perdere?

La deputata Carolina Varchi, promotrice dell’incontro e capogruppo FdI in Commissione Giustizia, ha usato parole che pesano come un bilancio pubblico: «I tempi per una nuova riforma sono maturi». L’ultima è del 2013, una preistoria se si guarda a come nel frattempo sono cambiati la tecnologia, il traffico dei dati, le relazioni tra Stati, la mobilità, le dinamiche criminali, le fragilità sociali.

La sua proposta è chiara: creare un nucleo investigativo nazionale dedicato esclusivamente alla ricerca delle persone scomparse, unendo sotto un’unica cabina di regia tutto ciò che oggi è sparpagliato.
Banche dati, competenze informatiche, conoscenze tecniche, saperi investigativi.
Soprattutto, un concetto che ricorre in ogni intervento: fare presto.
Perché nella ricerca di una persona scomparsa, ogni ora sottratta alla burocrazia è un’ora regalata alla vita.

Eppure, a ben guardare, non si tratta solo di velocità. Si tratta di collegare ciò che oggi è scollegato. Lo spiega con lucidità la presidente della Commissione Antimafia, Chiara Colosimo, che a un certo punto pronuncia la frase che più di tutte fotografa lo stato delle cose: «Senza l’interoperabilità delle banche dati, chi indaga lavora col freno a mano tirato».
Una verità brutale. In Italia, chi cerca una persona scomparsa deve saltare da un sistema all’altro come in un gioco dell’oca: Sdi, Anagrafe nazionale, Dna, Afis, tessera sanitaria, archivi ospedalieri, flussi anonimi.
Tutto separato, tutto lento, tutto vulnerabile agli abusi e ai ritardi.

Colosimo chiede un fascicolo virtuale unico, accessibile a tutti gli investigatori che operano sulla scomparsa. Un fascicolo che parli, che aggiorni, che incroci.
E aggiunge una parte che spesso viene ignorata, perché fa paura: la gestione dei cadaveri non identificati.
Ogni anno in Italia ce ne sono centinaia.
Corpi che non hanno un nome, perché manca un prelievo, manca un confronto, manca un protocollo nazionale davvero obbligatorio.

Salvo Sottile, Carolina Varchi e Federica Sciarelli

E qui la presidente dell’Antimafia non usa giri di parole: «Serve un decreto che renda uniforme il prelievo dei campioni da ogni cadavere non identificato e il loro inserimento nella banca dati nazionale del DNA. E serve, parallelamente, un sistema per raccogliere i profili genetici delle famiglie in cerca di un parente».
Solo così, dice, sarà possibile dare risposte anche nei casi più terribili, quelli della lupara bianca, dove il corpo diventa l’ultimo terreno di verità.

E mentre Roma discute di database, protocolli, decreti, norme europee e proporzionalità, la mente corre inevitabilmente a chi, ogni giorno, vive sulla propria pelle tutto ciò che qui appare teoria. I genitori che bussano alle caserme, le sorelle che appendono volantini, i fratelli che controllano ogni volto per strada sperando in un riconoscimento improvviso.
Le storie che riempiono i telegiornali per due giorni e poi svaniscono, inghiottite dalla cronaca successiva.

È per questo che il contributo di Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, è sembrato oggi il più necessario. Perché ha ricordato ciò che spesso si dimentica: molte scomparse non nascono da un reato, ma da una fragilità.
Adolescenti che scappano da ambienti dove non riescono a respirare.
Ragazzi che trovano nella rete una relazione tossica che li assorbe.
Minori non accompagnati che finiscono in reti devianti, sfruttati lavorativamente o sessualmente.

E allora Caffo torna a ripetere una cosa semplice ma troppo spesso ignorata:
il 116000 non è un numero di emergenza come gli altri. È un cordone ombelicale tra un ragazzo che scappa e un mondo che può ancora salvarlo.
Ma per funzionare deve far scattare, immediatamente, la rete di intervento: polizia, servizi sociali, prefetture, comunità. Non dopo ore. Non dopo un “aspettiamo, forse torna”.

Perché nel frattempo, il rischio cresce.
Ed è qui che la politica incontra la vita reale: ogni ritardo è uno spazio dove può infilarsi il peggio.

Ascoltando tutto questo, è impossibile non tornare all’immagine di Roberta Carassai che, pochi giorni fa, camminava per Torino sotto la pioggia.
Cercava suo figlio nei dormitori improvvisati, mostrando la foto agli invisibili della notte.
Quei 60 avvistamenti in poche ore che improvvisamente hanno riacceso una speranza collettiva: un ragazzo che assomiglia ad Alessandro, un’ombra familiare che attraversa via Roma, una figura confusa che siede accanto ai senzatetto.
Torino, per un attimo, si era trasformata in una mappa di possibilità.

Eppure, ciò che più pesa, oggi, è la distanza tra quella ricerca solitaria e il dibattito istituzionale.
Tra la madre che gira i portici e lo Stato che discute sulla necessità – sacrosanta – di una riforma.
Tra chi cerca nell’immediato e chi legifera sul futuro.

È proprio questa frattura che oggi è stata messa a nudo nella Sala della Regina.
Una frattura che si può ancora ricucire, ma solo a una condizione: che la politica decida finalmente di ascoltare le famiglie, non solo le statistiche.

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