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Cassa integrazione alle stelle: in Piemonte la manifattura rischia il collasso

Il dossier della CGIA di Mestre fotografa una crisi diffusa: auto, metallurgia e meccanica in difficoltà, con Cuneo e Asti tra le province più colpite. Felici (Confartigianato): “Serve un piano coraggioso, non misure tampone”

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Cassa integrazione alle stelle: in Piemonte la manifattura rischia il collasso

Il motore industriale del Piemonte scricchiola. Nei primi sei mesi del 2025, la cassa integrazione nel comparto manifatturiero è cresciuta del 68,4% rispetto allo stesso periodo del 2024. Un incremento che colloca la regione al quarto posto nella classifica nazionale, subito dopo Molise (+254,6%), Basilicata (+209,2%) e Abruzzo (+168,7%). Numeri che parlano chiaro: la manifattura piemontese è in sofferenza, e il quadro appare ancora più preoccupante se si guarda al dettaglio provinciale.

Il dossier elaborato dalla CGIA di Mestre, intitolato “Lavoro – un milione di posti in più, ma CIG in aumento”, descrive un Paese in bilico: l’occupazione cresce, ma le ore di cassa integrazione autorizzate aumentano. Un segnale che racconta di un mercato del lavoro dove la precarietà e l’incertezza si fanno strada sotto la superficie delle statistiche.

In Piemonte, la crisi è palpabile soprattutto nei distretti produttivi storici. Cuneo è la seconda provincia in Italia per incremento delle ore di cassa integrazione, con un balzo del 347,1%, seguita da Asti con un aumento del 289,4%. Al settimo posto nazionale compare Vercelli (+183%), mentre Verbano-Cusio-Ossola cresce del 92,9% e Torino, cuore industriale della regione, registra un incremento del 61,4%. Seguono Alessandria (+39,6%) e Novara (+28,9%), mentre Biella è l’unica provincia in controtendenza con un calo del 3,9%, che la colloca al 75° posto nella graduatoria italiana.

I settori più colpiti sono quelli automobilistico, metallurgico e meccanico, comparti tradizionalmente trainanti per l’economia piemontese. Secondo il rapporto, la cassa integrazione per l’industria dell’auto è cresciuta dell’85,8%, quella per le imprese metallurgiche del 56,7%, mentre la fabbricazione di macchine e apparecchi meccanici ha segnato un +12,5%. Il comparto delle calzature ha fatto registrare addirittura un +144,3%. Questi quattro settori, da soli, rappresentano oltre il 55% del totale delle ore autorizzate in tutto il manifatturiero nazionale.

L’analisi della CGIA parla di un rallentamento diffuso che riflette le tensioni internazionali, la contrazione della domanda estera e l’incertezza legata alla transizione industriale in corso. Ma in Piemonte, la crisi assume una connotazione particolare, perché colpisce il cuore pulsante del made in Italy meccanico e automobilistico, quello che per decenni ha fatto da motore all’intera economia del Nord-Ovest.

A interpretare il malessere del comparto è Giorgio Felici, presidente di Confartigianato Imprese Piemonte, che non usa mezzi termini: “Le imprese della meccanica stanno subendo gli effetti di un mix velenoso”, afferma. Un insieme di fattori recessivi che vanno dalla mancata ripresa del commercio internazionale alla stretta monetaria della Banca Centrale Europea, che riduce la propensione agli investimenti. A questo si aggiunge la recessione della Germania, primo mercato di destinazione per le esportazioni italiane, e la crisi strutturale del settore automobilistico, schiacciato dalle incertezze della transizione ecologica imposta dal Green Deal europeo.

“È una miscela esplosiva — avverte Felici — che mette a dura prova la tenuta del sistema produttivo e dell’indotto artigiano, soprattutto in Piemonte”. La regione, da sempre polo di eccellenza nella componentistica e nella meccanica di precisione, vive un momento di forte contrazione. Le aziende più piccole, in particolare, si trovano a dover sostenere costi crescenti e ordini in calo, e ricorrono agli ammortizzatori sociali come unica ancora di salvezza.

Il presidente di Confartigianato non nasconde la preoccupazione: “Non basteranno interventi tampone, serve una strategia di medio e lungo termine che metta al centro la manifattura e le sue trasformazioni”. Felici sollecita una politica industriale capace di affrontare il nuovo scenario tecnologico e ambientale senza lasciare indietro il tessuto delle piccole e medie imprese, che in Piemonte rappresentano oltre il 90% del comparto produttivo.

Nel frattempo, la crisi colpisce anche il settore moda, dove il Piemonte mostra un ulteriore peggioramento. Gli indicatori parlano di un calo della produzione e delle esportazioni, tanto che lo stesso Felici parla apertamente di un “terzo annus horribilis” per la moda italiana dall’inizio del secolo. “La situazione si aggrava — sottolinea — e il rischio è che si perda un patrimonio di competenze artigianali che ha reso grande il nostro Paese nel mondo”.

Il dato nazionale, che segna un aumento medio del 22% delle ore di cassa integrazione nel primo semestre del 2025 rispetto al 2024, mostra come la crisi non sia circoscritta a un’area, ma rappresenti un segnale di fragilità strutturale del sistema industriale. In molti casi, il lavoro c’è, ma non è sostenibile economicamente; in altri, la domanda interna resta debole e i mercati esteri si chiudono.

Felici, nel suo intervento, lancia un appello chiaro alla politica: “È in gioco la volontà o meno di prendere in mano le sorti del Paese. Non ci si può limitare a evocare la complessità geopolitica. Servono decisioni coraggiose, investimenti mirati, incentivi per l’innovazione e un vero piano di rilancio per l’industria”.

Il Piemonte, una delle culle della manifattura italiana, rischia così di diventare un simbolo della crisi del modello industriale nazionale. La cassa integrazione, più che un ammortizzatore, sta diventando la misura di un disagio diffuso, il termometro di un settore che fatica a immaginare il proprio futuro.

Il dossier della CGIA chiude con un dato che suona come un monito: negli ultimi dodici mesi, l’Italia ha registrato un milione di nuovi occupati, ma contemporaneamente è cresciuta la richiesta di cassa integrazione. Segno che, dietro la facciata della ripresa occupazionale, si nasconde un sistema produttivo che alterna picchi e stalli, ancora incapace di consolidare la crescita.

Per il Piemonte, questa fotografia vale come un campanello d’allarme: il rischio non è solo perdere posti di lavoro, ma perdere il ritmo stesso della sua economia, costruita per generazioni sulla forza del saper fare, sull’industria che produce, esporta e innova. E quando anche le officine si fermano, il silenzio che ne segue non è solo economico, ma sociale.

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