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09 Novembre 2025 - 09:33
Cannabis, il mondo cambia e l’Italia resta ferma: tra ipocrisie e divieti
Una pianta, molte leggi. La cannabis attraversa il mondo come un simbolo di trasformazione, di contraddizione e di mercato. In meno di un decennio oltre settanta Paesi hanno scelto di depenalizzare il possesso, regolamentare l’uso medico o legalizzare il consumo ricreativo. È un processo che ha cambiato il linguaggio della politica e della salute pubblica, aprendo nuovi scenari economici e morali. La mappa, però, resta irregolare: un mosaico di norme, esperimenti e divieti che raccontano quanto la società contemporanea sia ancora divisa tra libertà individuale e controllo statale.
Dietro ogni legge c’è un approccio culturale diverso. La cannabis non è solo una sostanza: è un laboratorio sociale che mette alla prova l’idea stessa di regolazione. Ciò che un tempo era perseguito ovunque come un reato, oggi è per alcuni un diritto, per altri un rischio da contenere.
La spinta verso la legalizzazione nasce da tre evidenze ormai consolidate. La prima è scientifica: studi e sperimentazioni cliniche dimostrano che i derivati della cannabis possono alleviare i sintomi di patologie come dolore cronico, sclerosi multipla, epilessia e nausea da chemioterapia. La seconda è economica: dove il mercato è regolato, il gettito fiscale cresce e si crea occupazione. La terza è politica: il proibizionismo non ha ridotto i consumi né colpito il traffico illecito, ma ha solo riempito le carceri e alimentato l’illegalità.
Eppure, la convergenza si ferma qui. L’onda verde incontra ancora resistenze morali, religiose e culturali. In molti Paesi la cannabis resta un tabù, simbolo di devianza più che di libertà. Il risultato è un equilibrio instabile, dove ogni confine nazionale segna una diversa concezione di giustizia e di salute pubblica.
Le distinzioni sono chiare sul piano formale, ma sfumate nella pratica. L’uso medico della cannabis è oggi riconosciuto in gran parte dell’Europa, in Canada, Australia, Israele e in molti Stati degli USA. Si tratta di un impiego controllato, con prescrizione medica e dosaggi stabiliti. In questo contesto la pianta viene trattata come un farmaco, non come una minaccia.
Diversa la storia dell’uso ricreativo, il terreno più controverso. Dove è stato introdotto – come in Canada, Uruguay e Malta – le ricerche mostrano un calo del mercato nero e un aumento delle entrate fiscali, senza incrementi significativi del consumo giovanile. Ma resta aperto il tema della prevenzione e del monitoraggio a lungo termine.
La sfida per i governi è duplice: da un lato arginare la criminalità, dall’altro evitare che la normalizzazione produca un’illusione di innocuità.
Il Canada è stato il primo grande Paese occidentale a legalizzare completamente la cannabis, nel 2018. Oggi il mercato è regolato, tassato e soggetto a rigidi controlli di qualità. L’esperimento è considerato un successo economico e un modello di governance.
Negli Stati Uniti, invece, la situazione è schizofrenica: mentre Stati come California, Colorado, New York e Nevada consentono l’uso ricreativo, a livello federale la sostanza resta vietata. Questa contraddizione genera incertezza per gli investitori e ostacola la ricerca scientifica.
In Sud America, l’Uruguay resta il pioniere: nel 2013 ha aperto alla produzione e al consumo legale, gestito dallo Stato. La Colombia e l’Argentina hanno scelto la via medica, mentre il Cile mantiene un approccio restrittivo.
In Africa, solo il Sudafrica ha depenalizzato il consumo personale privato, lasciando però illegale la vendita.
In Asia, la Thailandia ha sorpreso tutti nel 2022 liberalizzando il consumo e la coltivazione domestica, salvo poi introdurre nuove limitazioni per frenare il cosiddetto “weed tourism”. Altrove, da Singapore alla Cina, la tolleranza resta zero.

Nessun continente mostra una varietà di approcci così ampia come l’Europa. Il modello più noto resta quello olandese, dove da decenni è tollerata la vendita nei coffee shop, ma non la produzione alla fonte. È un sistema di compromesso che ha funzionato sul piano sociale, ma che oggi mostra i suoi limiti.
Malta, dal 2021, è diventata il primo Paese dell’Unione europea a legalizzare il consumo ricreativo e la coltivazione domestica fino a quattro piante per adulto. Nel 2024, la Germania ha varato una riforma storica: via libera al consumo per adulti e alla nascita dei cannabis club, associazioni no profit che gestiscono in modo controllato la distribuzione.
Esperimenti simili sono in corso in Svizzera e Lussemburgo, mentre Spagna e Portogallo restano su posizioni di depenalizzazione con una fitta rete di cannabis social club. L’obiettivo comune è ridurre i danni, sottrarre spazio al mercato nero e mantenere un presidio sanitario sui consumatori.
Il risultato è un modello europeo pragmatico, che non idealizza la liberalizzazione ma la concepisce come strumento di gestione sociale.
La cannabis resta proibita in gran parte dell’Asia e del Medio Oriente, dove le pene per il possesso possono arrivare alla detenzione lunga o, in alcuni casi, alla pena di morte. Arabia Saudita, Indonesia, Emirati Arabi Uniti e Giappone mantengono una linea durissima. Anche in Europa orientale prevale il rigore: Russia, Bielorussia e Ucraina mantengono leggi sanzionatorie senza aperture.
Negli USA, come già accennato, la contraddizione federale crea un sistema ibrido, dove il business della cannabis è legale in alcuni Stati e criminale in altri. È un paradosso che riflette il conflitto fra libertà economica e ordine federale.
In Italia, la situazione resta sospesa tra prudenza e ipocrisia. L’uso ricreativo è vietato, mentre quello medico è permesso dal 2007, ma con limiti stringenti. I derivati della cannabis vengono prodotti dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, sotto controllo pubblico, e distribuiti solo su prescrizione per specifiche patologie. La domanda, però, supera spesso la disponibilità, costringendo i pazienti ad acquistare all’estero o sul mercato parallelo.
Per il possesso a uso personale, la legge prevede sanzioni amministrative come la sospensione della patente o del passaporto, ma non pene detentive. Tuttavia, il dibattito politico resta fermo tra polarizzazioni ideologiche: da un lato chi invoca la legalizzazione per sottrarre terreno alle mafie, dall’altro chi teme un aumento dei consumi tra i più giovani.
La discussione sulla cannabis light e sull’autocoltivazione domestica si è scontrata più volte con veti e ricorsi, senza mai approdare a una riforma organica. L’Italia, così, rimane in una zona grigia, dove la pratica medica è ammessa ma il discorso pubblico resta intrappolato nella paura del consenso.
La vera frontiera, oggi, non è più giuridica ma culturale. La cannabis rappresenta un cambio di paradigma: dal controllo alla gestione, dalla repressione alla regolazione. I Paesi che hanno scelto la via della legalizzazione non lo hanno fatto per ideologia, ma per pragmatismo. La riduzione del danno, il controllo sanitario e la trasparenza fiscale si sono dimostrati più efficaci del proibizionismo cieco.
Al tempo stesso, esperienze come quella thailandese mostrano il rischio opposto: senza regole chiare e informazione, la liberalizzazione può degenerare in confusione. Il punto di equilibrio resta difficile da trovare, ma sempre più nazioni sembrano orientarsi verso una “terza via”: quella della responsabilità condivisa tra Stato, cittadino e mercato.
La cannabis, insomma, non è solo una questione di libertà personale o di legge. È un banco di prova per la capacità dei governi di adattarsi a una società che cambia. Ogni foglia di questa pianta racconta una storia: di salute, di economia, di diritti. E di un mondo che, lentamente, sta imparando che gestire è meglio che proibire.
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