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05 Novembre 2025 - 21:52
Femminicidio di Pamela Genini, colpo di scena: Soncin fece la copia delle chiavi di casa sua una settimana prima di ucciderla
Chi pensa che la duplicazione di una chiave sia un dettaglio secondario di cronaca si sbaglia di grosso. Perché in questa storia la chiave è tutto: è la prova del crimine, il simbolo del controllo, l’atto che separa la paura dalla tragedia. Gianluca Soncin, l’uomo accusato del femminicidio della sua ex compagna Pamela Genini, non ha sfondato una porta: l’ha aperta. E lo ha fatto con una copia delle chiavi che si sarebbe procurato una settimana prima del delitto, avvenuto il 14 ottobre nell’appartamento di via Iglesias a Milano. Un gesto calcolato, lucido, che per la Procura di Milano rafforza l’aggravante della premeditazione.
La sequenza, ricostruita dagli inquirenti, è fredda come una formula. Una settimana prima di uccidere Pamela, Soncin avrebbe finto un malore durante una delle sue visite all’abitazione della donna, per restare solo e impossessarsi delle chiavi. Quando lei si è allontanata per andare dai genitori, in provincia di Bergamo, lui sarebbe entrato dal ferramenta, un negozio non lontano da casa, e avrebbe chiesto di farne una copia. Quel duplicato, riconosciuto poi dal titolare per modello e matrice, diventerà la chiave – in tutti i sensi – del delitto.
Con quella copia in tasca, Soncin, 52 anni, residente a Cervia ma originario del Biellese, la sera del 14 ottobre parte da casa sua e raggiunge Milano. Non lo muove l’impulso, ma la pianificazione. Sa già come entrare, sa che Pamela sarà sola. Lei, 29 anni, modella e imprenditrice, è al telefono con un ex fidanzato, confida i suoi timori, racconta di sentirsi perseguitata da quell’uomo che non accetta la fine della loro relazione. E proprio in quel momento, Soncin entra. Nessuna serratura forzata, nessun rumore. Solo la porta che si apre. Poi il silenzio si rompe con trenta coltellate.
Trenta. Non un gesto d’impeto, ma una furia reiterata che rivela un piano e un odio sedimentato. Gli inquirenti lo definiscono un delitto di crudeltà assoluta, aggravato dalla premeditazione. Le indagini, coordinate dalla procuratrice aggiunta Letizia Mannella e dalla pm Alessia Menegazzo, tracciano un profilo preciso: Soncin sapeva cosa stava facendo. In casa sua, i carabinieri trovano coltelli e pistole scacciacani, strumenti che raccontano una personalità ossessiva, preparata, in grado di simulare controllo anche nella follia.

Pamela Genini
La chiave duplicata diventa così l’oggetto-simbolo di questa vicenda. Non è solo un pezzo di metallo: è la rappresentazione fisica del dominio. Entrare in casa senza permesso, ma con la chiave, significa cancellare il confine tra libertà e prigionia. Significa dire: “decido io quando posso entrare”. È l’atto che trasforma l’amore malato in ossessione totale, l’illusione del possesso in violenza. È l’ultimo passo di una persecuzione che si finge attenzione, di un controllo che si maschera da preoccupazione.
Pamela Genini aveva paura. Lo aveva detto, lo aveva confidato. Quella sera, mentre raccontava le sue ansie al telefono, nessuno poteva immaginare che dietro la porta ci fosse già chi aveva deciso per lei. È questa la parte più insopportabile: la lucidità del gesto. Soncin non ha improvvisato. Ha rubato, pianificato, duplicato, viaggiato, ucciso. Ogni fase del suo piano si è compiuta nel silenzio dell’abitudine. Nessuna esplosione di rabbia, ma un crescendo metodico di possesso e violenza.
La Procura parla chiaro: l’elemento delle chiavi è la prova più forte della premeditazione. È il tassello che chiude il cerchio. Senza di essa, il delitto avrebbe potuto sembrare frutto di un momento di ira. Con essa, diventa progetto, costruzione, freddo disegno di morte. Non a caso il gip lo descrive come un uomo “lucido e determinato”, convinto che Pamela non dovesse appartenergli né vivere libera. “O con me o con nessun altro.” Una frase che è insieme condanna e confessione.
Intanto, nel suo appartamento di Cervia, gli investigatori trovano un piccolo arsenale: coltelli di diversi tipi, pistole scacciacani, strumenti da taglio. Non è follia momentanea, è accumulo. Una preparazione inquietante che rivela quanto il gesto non sia stato frutto dell’improvvisazione ma il punto finale di una ossessione coltivata nel tempo. Davanti al giudice, Soncin sceglie il silenzio. Si avvale della facoltà di non rispondere. Ma il suo silenzio non cancella la traccia lasciata dalle chiavi, dai ferri, dal viaggio da Ravenna a Milano, dalle trenta coltellate inferte con determinazione.
La storia di Pamela Genini si inserisce nel quadro drammatico dei femminicidi italiani. È l’ennesima conferma di un sistema che troppo spesso interviene tardi, quando la violenza è già diventata irreversibile. Gli atti d’indagine raccontano che Pamela aveva parlato delle sue paure, ma come tante altre donne non ha trovato protezione sufficiente. Gli uomini che si sentono traditi o respinti continuano a credere di avere un diritto di possesso, e lo esercitano come se fosse naturale.
La duplicazione delle chiavi diventa allora una metafora di questo dominio: entrare, decidere, occupare. È la violenza che si fa quotidianità, che usa strumenti comuni per perpetuare l’idea del controllo. Nessun muro è abbastanza alto, nessuna denuncia abbastanza veloce, se il sistema non impara a riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi. Perché la tragedia di Milano, come tante altre, non è esplosa d’improvviso: è maturata nella routine, nei silenzi, nelle scuse, nei “non è niente”, nei “ci penso io”.
Eppure la differenza tra vivere e morire, in questa storia, sta in un gesto apparentemente banale: duplicare una chiave. È lì che il delitto è cominciato. Tutto il resto ne è solo la conseguenza. Ed è per questo che parlare di premeditazione non è una formula giuridica, ma una definizione morale: la consapevolezza di chi decide di attraversare il limite con calma, con metodo, con la freddezza di chi non lascia spazio alla vita dell’altro.
La vicenda di Pamela ci obbliga a guardare in faccia la realtà: ogni femminicidio è un atto politico, non solo criminale. È il prodotto di una cultura che ancora tollera l’idea del possesso come prova d’amore, del controllo come forma di attenzione. Soncin non è un mostro isolato, ma il volto estremo di una mentalità diffusa. E finché questa mentalità resterà radicata, le chiavi continueranno a cambiare mano, a essere copiate, a diventare strumenti di dominio.
La domanda finale è la più terribile: quante altre chiavi sono già state duplicate? Quante donne, oggi, credono di essere al sicuro in una casa di cui un ex possiede ancora l’accesso? Quante porte, apparentemente chiuse, possono aprirsi sull’orrore? È su queste domande che si misura la responsabilità collettiva, quella che non può più limitarsi a piangere dopo, ma deve imparare a leggere prima.
Perché il delitto non inizia con la lama. Inizia con la chiave. Con il gesto che annulla la distanza, che cancella il confine, che trasforma l’intimità in trappola. Pamela Genini non è morta solo per mano di chi l’ha colpita, ma per un sistema che ancora non sa riconoscere il momento esatto in cui l’amore diventa violenza. E se oggi quella chiave diventa prova di premeditazione, deve diventare anche il simbolo di un impegno: non lasciare più nessuna porta aperta all’indifferenza.
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