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Cronaca

“Tesò, che faccio?” — L’ultimo messaggio di Pamela prima di morire: uccisa da chi diceva di amarla

Un amore malato trasformato in ossessione. Pamela Genini, 29 anni, scriveva di avere paura mentre Gianluca Soncin, l’ex compagno che la perseguitava da mesi, entrava in casa con una copia delle chiavi. Trenta coltellate, nessuna denuncia registrata, e una vita spezzata che grida giustizia

"Teso che faccio?

"Teso che faccio?": le ultime parole di Pamela prima di morire

“Ho paura. Questo è matto completamente… non so che fare”. Sono le 21.46. Sei minuti dopo, un altro messaggio disperato: “Tesò che faccio?”.
Sono le ultime parole scritte da Pamela Genini, il grido d’aiuto di una donna che sapeva di essere in pericolo, ma non immaginava che quella sera — il 14 ottobre — sarebbe stata la sua ultima. Dall’altra parte del telefono, l’ex fidanzato, oggi amico, prova a calmarla, resta in linea, chiama la polizia. Ma è troppo tardi. Gianluca Soncin, 52 anni, è già dentro casa. È entrato con una copia delle chiavi fatta di nascosto, un gesto preparato con fredda lucidità.

In pochi secondi, la furia. Soncin, che da oltre un anno la perseguitava, l’ha colpita con una violenza inaudita. Più di trenta coltellate, un’esplosione di odio che ha lasciato il tempo solo per un ultimo respiro. Quando gli agenti, allertati dall’amico, sfondano la porta dell’appartamento di via Iglesias, a Milano, trovano il corpo di Pamela riverso a terra. L’assassino ha infierito fino all’ultimo, in un delirio di possesso e vendetta.

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Le prime analisi dell’autopsia parlavano di 24 ferite. Ma ora i nuovi accertamenti confermano che i colpi sono molti di più, e che almeno tre fendenti al torace sono stati mortali. Altri, forse, al collo. Ogni dettaglio di quella morte racconta una sofferenza lunga, annunciata, ignorata.

“Faccio fatica a parlare, però vi dico che per tutto quello che ha fatto quel mostro a mia figlia deve pagare. Deve pagare. L’ha fatta soffrire tanto”, dice tra le lacrime la madre di Pamela. Quel “mostro” è ora in isolamento nel carcere di San Vittore. Il gip Tommaso Perna ha confermato le cinque aggravanti contestate: premeditazione, crudeltà, stalking, violenza privata e porto abusivo d’arma.

Lunedì prossimo la procura milanese, con l’aggiunta Letizia Mannella, la pm Alessia Menegazzo e gli investigatori della Polizia, terrà una riunione operativa. Sul tavolo, una raffica di acquisizioni: chat, tabulati, testimonianze, verbali. Tutto servirà a ricostruire gli ultimi mesi di Pamela, il suo inferno quotidiano, la paura che cresceva mentre cercava di liberarsi da quell’uomo che non voleva lasciarla andare.

La Procura, diretta da Marcello Viola, acquisirà anche i documenti relativi alla violenta lite di Cervia, avvenuta a casa di Soncin nel settembre 2024. Quella volta lui le ruppe un dito. Lei fuggì da un’amica, andò all’ospedale di Seriate. Ma non denunciò. Forse per paura. Forse perché minacciata ancora una volta. I carabinieri fecero un rapporto, trasmesso a Ravenna. Ma senza denuncia, la pratica finì tra i casi “non gravi”.

Ora, i magistrati vogliono ricostruire tutto: dal tentato accoltellamento a una precedente aggressione all’Isola d’Elba, fino alle umiliazioni, agli insulti, alle persecuzioni quotidiane. E scavano anche nella vita dell’assassino: un uomo segnato da droga, violenza e instabilità. Un arresto alle spalle, dipendenza da cocaina e oppiacei che — secondo i primi riscontri — “prendeva in una farmacia di Cervia senza ricetta”, e una denuncia per maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie, che sarà presto ascoltata.

Il gip ha parlato di “amarezza”: nei sistemi delle forze dell’ordine non risulta nessuna denuncia a carico di Soncin. Nessuna richiesta di aiuto formalmente registrata, nemmeno quando la Polizia era intervenuta in via Iglesias, il 9 maggio scorso. Quella volta fu la stessa Pamela a chiamare. Disse agli agenti di non volerlo far entrare. Lo definì “un amico”, precisando di conoscerlo da circa un anno. Il verbale annotava: “Da controllo in banca dati SDI, entrambi risultavano positivi, ma non risultavano interventi pregressi né denunce o querele tra le parti”.

Un sistema cieco, che non ha saputo leggere la paura di una donna. Una storia che si ripete, identica, atroce, come tante altre.

Negli atti resta impressa l’ultima chat. Alle 21.35 Pamela scrive: “Tesò ho paura, ha fatto doppione chiavi mie, è entrato ora in casa. Non so che fare. Chiama la polizia”. Poi ancora: “Ho paura, ti rendi conto cosa ha fatto?”. Alle 21.52, l’ultimo messaggio: “Tesò che faccio?”. L’amico risponde disperato: “Sta arrivando la polizia, li ho chiamati. Sto arrivando pure io. Apri sotto, sono giù con la polizia”.

Ma quando la porta si apre, Pamela non c’è più.

Nel verbale del primo interrogatorio, Soncin — che ha scelto di non rispondere — si permette persino una macabra ironia. Alla voce “dimora”, scrive “sino alla data di ieri, 14 ottobre, via Iglesias, Milano”. Alla voce “professione”, annota: “Lavoro presso l’azienda di mio padre ad Arzignano (Vicenza), non ricordo il nome. Si occupa di lavorazione di pellame”.
Come se fosse solo una formalità. Come se non avesse appena cancellato una vita.

Pamela aveva 29 anni. Voleva vivere, ricominciare, lasciarsi alle spalle la paura. Lo aveva scritto più volte nei messaggi agli amici: “Basta, questa volta lo lascio davvero”. Ma anche questa volta — come troppe altre in Italia — la violenza l’ha raggiunta prima che qualcuno la proteggesse davvero.

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