In un Canavese sempre più rarefatto di servizi e speranze, la storia del Chiringuito di Scarmagno racconta molto più di un contenzioso amministrativo. È la parabola di un’Italia minore che si svuota non per mancanza di abitanti, ma per assenza di cura politica, di visione, di responsabilità. Il caso è arrivato in Consiglio comunale il 24 ottobre, quando tra le interrogazioni della minoranza è approdato anche il nodo del piccolo bar-ristoro all’ingresso del capoluogo. Nove domande, una seduta accesa, un sindaco che si trincera dietro la “riservatezza” e un paese che osserva attonito il proprio unico luogo di socialità scivolare verso la chiusura.
Il sindaco Adriano Grassino ha spiegato che il Comune ha incaricato un legale di procedere contro Sabrina Tardito, titolare del Chiringuito, per ottenere la liberazione dell’immobile e il pagamento dei canoni arretrati. Ma dietro quelle cifre, 650 euro al mese di affitto, si nasconde una storia di incomprensioni, di disattenzioni e di promesse mancate.
Perché il locale non vive nel vuoto: è parte integrante del complesso sportivo comunale, chiuso da due anni nonostante lavori di ristrutturazione da 50 mila euro. La titolare, penalizzata dal calo di clienti dopo la serrata degli impianti, ha deciso di autoridursi il canone a 400 euro, convinta che l’amministrazione avesse mancato i propri doveri di manutenzione e adeguamento. Il risultato è un braccio di ferro legale che oggi rischia di trasformarsi in sfratto e in un’altra saracinesca abbassata in un paese di meno di 800 abitanti.
Il caso del Chiringuito non è isolato.
È il tassello più visibile di una catena di inefficienze che da anni attraversa la gestione degli spazi comunali di Scarmagno.
Il consigliere di minoranza Donato Altieri ha depositato ad agosto un esposto di 46 pagine alla Corte dei Conti, alla Procura e all’Autorità Anticorruzione, denunciando presunte anomalie nella gestione degli impianti sportivi e dei contributi alle associazioni. Secondo il documento, il campo sportivo sarebbe stato abbandonato alla fatiscenza, con canoni mai versati, tasse non pagate e concessioni rinnovate nonostante le inadempienze.

Donato Altieri con l'esposto nella redazione de La Voce
Un esposto che, indirettamente, spiega perché il Chiringuito sia diventato una vittima collaterale dell’immobilismo pubblico. Il bar si trovava accanto a un’area sportiva chiusa e silenziosa, privata di quella linfa che garantiva movimento, afflusso e senso di comunità. Intanto, il Comune ha preferito concentrarsi sulla contabilità del contratto invece che affrontare le cause del problema. Una logica ragionieristica che ha trasformato un rapporto di collaborazione in un conflitto giudiziario, aggravato dal malcontento popolare.
Duecento firme raccolte in poche settimane raccontano meglio di qualsiasi delibera quanto il Chiringuito sia diventato parte integrante del tessuto sociale. Non è un locale di moda né un bar di passaggio.
È la rivendita del pane dopo la chiusura dell’ultimo alimentari, è il punto d’incontro dei genitori che aspettano i figli fuori da scuola, è il ritrovo degli sportivi che non hanno più un campo dove allenarsi. Chiudere quel bar significa spegnere una luce reale e simbolica, una delle poche ancora accese in un territorio dove le piazze si svuotano e i servizi scompaiono. In questo contesto, la reazione del Comune appare scollegata dalla realtà: anziché cercare una mediazione o un progetto di rilancio, ha proposto una rateizzazione del debito a patto che la titolare rinunci a qualsiasi richiesta di risarcimento.
La vicenda di Scarmagno è un piccolo specchio dell’Italia intera. Un paese che investe soldi pubblici per ristrutturare un impianto sportivo e poi lo lascia chiuso. Un’amministrazione che parla di “regole” ma dimentica la sostanza: che quelle regole dovrebbero servire a garantire servizi, non a chiuderli.
È la stessa logica che porta molti Comuni a trattare un bar di paese come se fosse un franchising in centro città: stesse tariffe, stessi vincoli, zero considerazione del contesto. In realtà, nei piccoli centri il valore economico e quello sociale si intrecciano. Un’attività come il Chiringuito genera relazioni, presidia il territorio, offre un servizio pubblico sotto forma privata. Ignorarlo significa confondere la gestione con la vita. Scarmagno non è un’eccezione: è l’ennesima dimostrazione di come la burocrazia, quando diventa fine a sé stessa, divora i luoghi che dovrebbe proteggere. E intanto, mentre il sindaco difende la “linea della legalità” e la minoranza chiede chiarezza sulle concessioni, il paese resta fermo: un campo sportivo chiuso, un bar a rischio sfratto, associazioni senza fondi e cittadini che si chiedono a cosa serva davvero un Comune se non sa tenere insieme la propria comunità.
Dietro il caso giuridico c’è una questione politica e morale più profonda. In un territorio che ha già perso fabbriche, negozi, servizi e identità, la politica locale continua a ragionare come se fosse in una grande città, dimenticando che qui ogni decisione pesa il doppio. Non si tratta di chiedere favoritismi, ma di pretendere intelligenza amministrativa: capire che un canone può essere negoziato, ma la fiducia dei cittadini no. Il Chiringuito non chiede regali.
Chiede che si riconosca il suo ruolo di luogo di prossimità, di socialità, di resistenza civile. E chiede che il Comune torni a essere un interlocutore, non un avversario. Le duecento firme consegnate in municipio sono una dichiarazione d’amore e di sfida: la dimostrazione che una comunità minuscola può ancora alzare la testa e dire “no” all’indifferenza. Ma finché la politica continuerà a ridurre tutto a una cifra su un contratto, il Canavese – come molti altri paesi italiani – continuerà a spegnersi, un locale alla volta.
Oggi Scarmagno si ritrova con un impianto sportivo ristrutturato ma inutilizzato, un bar che rischia la chiusura e un esposto alla Corte dei Conti che pende sul capo dell’amministrazione. L’opposizione accusa, il sindaco si difende, i cittadini firmano. E intanto, nulla si muove.