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01 Novembre 2025 - 18:14
Giovanni e Rosina
C’è un giorno, ogni anno, in cui l’Italia si ferma. Le campane suonano lente, le bandiere si piegano al vento e davanti ai monumenti ai caduti il tempo rallenta. È il 4 novembre, giorno dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate.
Un giorno che non appartiene solo ai libri di storia, ma ai cuori di chi ancora sa commuoversi davanti al sacrificio. In quel silenzio che avvolge le piazze si ascolta qualcosa che non ha voce: il respiro della memoria.
Tra le tante storie che riaffiorano, ce n’è una che arriva da Lauriano e profuma di terra, di cavoli seminati e di lettere scritte con mani stanche ma piene d’amore. È la storia di Giovanni Sapetti, un uomo semplice — contadino, marito e padre — partito con lo zaino pieno di speranza e tornato solo nei ricordi di chi lo ha amato. Un uomo che divenne eroe senza volerlo.
Giovanni era nato il 4 luglio 1884 a Bra, nel Cuneese. Lavorava la terra, viveva al ritmo delle stagioni e trovava la felicità nelle piccole cose: la famiglia, il raccolto, la serenità di un giorno qualunque.
Nel 1915, però, la guerra cambiò tutto. L’Italia entrò nel conflitto e anche per lui arrivò la chiamata alle armi. Sapendo che avrebbe dovuto partire, Giovanni seminò in anticipo i cavoli, curandoli con la stessa attenzione con cui un padre accarezza i propri figli. Sperava che, almeno loro, potessero crescere forti anche senza di lui.
Poche settimane dopo salutò la moglie Rosina e i due bambini, Anna e Francesco, e partì per l’addestramento militare. Trascorse l’estate in Piemonte, tra marce, polvere e attese silenziose, con il pensiero sempre rivolto a casa.
Quando l’autunno colorò le colline e l’aria si fece più fredda, arrivò l’ordine di partire per il fronte. A novembre, Giovanni fu trasferito con il suo reggimento sull’Isonzo, a Plava.
Prima di lasciare la sua terra tornò per un ultimo saluto: uno sguardo lungo alla casa, un abbraccio ai figli, un bacio a Rosina. La moglie chiamò il piccolo Francesco, che giocava nell’aia: «Vieni, è tornato papà!». Il bimbo si voltò, vide un uomo alto, in divisa, che lo sollevò da terra e lo abbracciò forte. Quell’abbraccio fu l’unico e l’ultimo ricordo che Francesco avrebbe custodito per tutta la vita.
Tra il fango e il rumore incessante delle granate, Giovanni continuava a scrivere pensando alla sua famiglia: sperava che Rosina stesse bene, che ricevesse il sussidio e che i cavoli, seminati con tanto amore, fossero cresciuti abbastanza da nutrirli.
Nelle sue lettere dal fronte scriveva con semplicità, ma tra le righe si leggeva tutto il peso della lontananza:
«Mi sembrano già passati dieci anni da quando siamo partiti da Bra. Ci hanno spostato di continuo, sempre più vicino al fronte. Bisogna farsi coraggio, quello che sarà, sarà.»
(Lettera di Giovanni Sapetti, 1 novembre 1915)
Poi arrivò la tragedia. Durante un assalto, un’esplosione devastante lo colpì in pieno. Fu ritrovato vivo ma gravemente ferito, privo degli arti. Trasportato in un lazzaretto, visse prigioniero del proprio corpo, sorretto solo dal ricordo della famiglia.
La moglie, povera e analfabeta, non seppe mai la verità. I parenti, mossi dalla pietà e dal timore di spezzarle il cuore, decisero di proteggerla con il silenzio. Per garantirle una piccola pensione, Giovanni venne dichiarato “disperso in guerra”. Così, per lei, rimase l’attesa: un’attesa che non ebbe mai fine.
Il suo nome restò scritto nei registri militari, ma per la famiglia si spense nel mistero, come una voce che il tempo aveva soffocato. I figli crebbero, la vita andò avanti, ma in quella casa continuò a vivere un’assenza che nessuno ebbe mai il coraggio di nominare.
Con emozione e rispetto, il pronipote Sergio Sapetti ha riportato alla luce la memoria del suo bisnonno. Una parte della storia è sopravvissuta grazie ai racconti di famiglia; l’altra, sepolta nel tempo, è stata ricostruita da Sergio, scrittore laurianese, settant’anni dopo, con pazienza e amore, attraverso lettere sbiadite, archivi militari e frammenti di memoria.
Tutto questo lavoro è diventato il libro “L’arcipelago degli sguardi bambini”, dove la voce del bisnonno sembra tornare a parlare tra dolore e tenerezza, dalle pagine del passato.
Pagina dopo pagina, quell’uomo semplice che la guerra aveva ridotto al silenzio riacquista voce e posto nella storia — e nel cuore della sua famiglia.
Nel 2017, durante una cerimonia a Bra, il nipote Giovanni Sapetti ha ricevuto la medaglia commemorativa in nome del nonno caduto. Quando il metallo lucente gli fu consegnato tra le mani, non era solo un riconoscimento: era come se, dopo cent’anni, Giovanni tornasse finalmente a casa.

La consegna della medaglia commemorativa
Giovanni non era un eroe per scelta. Era un uomo, come tanti, che amava la sua famiglia e la sua terra. Ma proprio per questo, il suo sacrificio vale ancora di più.
A centodieci anni da quei giorni di paura e speranza, le sue parole risuonano ancora come un messaggio universale: «Bisogna farsi coraggio, quello che sarà, sarà.»
Non è solo una frase scritta su un foglio ingiallito: è una lezione di vita, un’eredità lasciata a chi, anche oggi, affronta le proprie battaglie quotidiane.
Il 4 novembre non è solo una data sul calendario. È una promessa che rinnoviamo ogni anno davanti ai monumenti ai caduti: quella di non dimenticare. Non si celebra la guerra, ma la pace conquistata con il sangue e con la speranza.
Si celebrano gli uomini e le donne che hanno creduto nell’Italia e che, con la loro forza, ci hanno consegnato il dono più grande: la libertà.
E quando la tromba intona “Il Silenzio”, quel suono non è solo musica: è un abbraccio invisibile che unisce generazioni, città, cuori. In quel momento, anche Giovanni Sapetti è lì — tra i nomi che il vento sussurra, tra le storie che nessuno può cancellare.
Oggi, accanto ai monumenti, i bambini portano fiori e gli anziani portano memoria. In quel gesto semplice, l’Italia ritrova se stessa. Perché chi ha dato la vita per la patria non muore mai davvero: vive in ogni gesto di pace, in ogni scelta giusta, in ogni cuore che sa ancora commuoversi davanti a una storia come quella di Giovanni Sapetti, il contadino che partì seminando cavoli e tornò a casa solo attraverso le pagine della memoria.

Bra

Lettera di Giovanni Sapetti alla moglie
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