Cerca

Attualità

Italiani di origine straniera: come sono distribuiti sul territorio nazionale?

In Italia quasi 2,1 milioni di persone hanno acquisito la cittadinanza, l’86% proviene da Paesi non europei. Lombardia, Emilia e Veneto attraggono la maggior parte dei nuovi italiani. Cinesi ultimi per naturalizzazioni: “la cittadinanza si perde”

Italiani di origine

Italiani di origine straniera: come sono distribuiti sul territorio nazionale?

Cambia, lentamente ma in modo profondo, la fisionomia demografica dell’Italia. Il Rapporto 2025 dell’Istat sui cittadini non comunitari restituisce l’immagine di un Paese che, nel silenzio delle statistiche, si è trasformato. Oggi oltre due milioni di persone residenti in Italia sono italiane per acquisizione della cittadinanza, di cui 1 milione e 790mila provenienti da Paesi extra Ue. In altre parole, quasi nove su dieci dei nuovi italiani arrivano da fuori dai confini europei.

È un dato che racconta non solo l’evoluzione dell’immigrazione, ma anche il percorso di integrazione e stabilizzazione di milioni di famiglie. Rapportando i nuovi italiani e i cittadini non comunitari con permesso di soggiorno, l’Istat calcola che ogni 100 stranieri regolari, 47 siano ormai italiani di origine non comunitaria. Una proporzione significativa, che mostra come l’Italia, pur tra contraddizioni e lentezze burocratiche, stia consolidando una parte crescente della popolazione straniera nel proprio tessuto civile.

Tra le principali collettività, gli albanesi e i marocchini si confermano le più “italianizzate”. Secondo l’Istat, ogni 100 albanesi residenti con permesso di soggiorno si contano oltre 94 italiani di origine albanese. Un valore che riflette una presenza ormai storica, radicata sul territorio da più di trent’anni e distribuita soprattutto tra Lombardia, Toscana, Emilia-Romagna e Piemonte.

Subito dopo gli albanesi, la comunità marocchina mostra un tasso elevato di acquisizioni: 73 italiani di origine marocchina ogni 100 cittadini con permesso di soggiorno. Anche in questo caso, la lunga permanenza e la maggiore propensione alla stabilità familiare hanno favorito il percorso verso la cittadinanza.

Più contenuti i numeri per gli ucraini, oggi la collettività non comunitaria più numerosa in Italia in termini di permessi di soggiorno attivi. Ma qui i dati vanno letti con cautela: una quota consistente degli ucraini è arrivata negli ultimi due anni, in seguito all’invasione russa, con permessi di protezione temporanea. L’Istat calcola che solo 12 ogni 100 abbiano ottenuto la cittadinanza italiana, un dato fisiologico per una popolazione in larga parte di recente arrivo.

Il caso più emblematico è quello della comunità cinese, che occupa il terzo posto per presenza in Italia ma l’ultimo per incidenza di nuovi italiani: appena 6 ogni 100 hanno acquisito la cittadinanza. Le ragioni, spiega l’Istat, non sono solo culturali ma anche giuridiche: la legge cinese non riconosce la doppia cittadinanza, e chi sceglie di diventare italiano deve rinunciare a quella d’origine. Una decisione spesso percepita come definitiva e quindi evitata.

Nonostante ciò, la comunità cinese resta tra le più dinamiche dal punto di vista economico: attiva nel commercio, nella ristorazione e nella manifattura, è una delle colonne dell’imprenditoria straniera in Italia, con oltre 50mila imprese registrate secondo Unioncamere.

Gli italiani di origine non comunitaria hanno un’età media di 39 anni, quasi nove anni in meno rispetto agli italiani dalla nascita. Una differenza che spiega la crescente importanza di queste nuove generazioni per la tenuta demografica e produttiva del Paese.

Le cosiddette “piramidi delle età” tracciate dall’Istat mostrano due profili opposti: quella degli italiani nativi ha una base stretta, segno di pochi giovani, e un’ampia parte centrale sopra i 50 anni; quella dei nuovi italiani, invece, è più equilibrata, con picchi tra i 15 e i 20 anni e tra i 40 e i 50. È la fotografia di un’Italia che invecchia e di un’altra che cresce, si forma, studia e lavora.

Ma le differenze territoriali restano forti. Oltre metà dei cittadini italiani di origine non comunitaria vive nel Nord, concentrati in tre regioni: Lombardia (26,2%), Emilia-Romagna (12,5%) e Veneto (12,1%). È qui che si trovano le maggiori opportunità di lavoro, i servizi più accessibili e una rete scolastica più pronta all’inclusione.

Nel Sud, invece, le percentuali scendono drasticamente: Sicilia (2,8%) e Campania (2,3%) sono le regioni con la presenza più bassa di nuovi cittadini. Un divario che riflette non solo il minor numero di immigrati storici, ma anche la minore attrattività economica e occupazionale.

A livello provinciale, dopo le grandi città metropolitane di Milano, Roma e Torino, spiccano Brescia con oltre 81mila italiani di origine non comunitaria, seguita da Bergamo, Treviso e Vicenza, tutte intorno alle 50mila presenze.

La geografia delle seconde generazioni

Dietro le cifre dell’Istat c’è un tema cruciale: quello delle seconde generazioni. Molti dei quasi due milioni di italiani di origine straniera sono nati in Italia o vi sono arrivati da piccoli. Frequentano scuole italiane, parlano l’italiano come prima lingua, ma spesso si scontrano con un processo di riconoscimento lento e frammentario.

Fino a pochi anni fa, per ottenere la cittadinanza era necessario un iter lungo e burocratico: la naturalizzazione poteva arrivare solo dopo 10 anni di residenza continuativa, o, nel caso dei minori, con una dichiarazione di volontà da presentare al compimento dei 18 anni. Molti, pur essendo di fatto italiani, restavano formalmente stranieri fino alla maggiore età.

Negli ultimi anni, però, la maggiore consapevolezza istituzionale e l’aumento dei matrimoni misti hanno accelerato i percorsi. L’Istat sottolinea come l’Italia sia ormai un Paese multigenerazionale e multiculturale, dove la cittadinanza si costruisce non solo con un atto giuridico, ma con l’esperienza quotidiana della convivenza.

Un’Italia che cambia (e che ancora non si conosce)

La crescita dei nuovi cittadini, spiega il rapporto, non è solo un fatto numerico. È un indicatore di integrazione e radicamento, ma anche di politiche migratorie che stanno maturando. Le persone che oggi ottengono la cittadinanza italiana sono spesso le stesse che, venti o trent’anni fa, arrivarono con un permesso temporaneo e un lavoro precario. Hanno costruito imprese, famiglie, comunità locali.

Molti di loro hanno figli che studiano nelle università italiane o lavorano nella sanità, nella scuola, nella logistica, nell’artigianato. Sono la forza silenziosa dell’economia reale, quella che ha tenuto in piedi interi settori durante la crisi e la pandemia.

Eppure, osserva l’Istat, il dibattito pubblico è ancora lontano da questa realtà. Il tema della cittadinanza continua a dividere la politica, tra chi invoca una riforma dello ius soli e chi teme un’eccessiva apertura. Ma le cifre dicono che il cambiamento è già avvenuto. L’Italia di oggi è un Paese dove una persona su trenta è italiana per acquisizione, e dove l’integrazione non è più un’eccezione ma un fatto sociale diffuso.

L’istituto di statistica invita a leggere i numeri in una prospettiva di lungo periodo. La popolazione italiana, sempre più anziana e in calo demografico, trova nella presenza dei nuovi cittadini una risorsa demografica e culturale. La loro età media più bassa e la loro partecipazione al mondo del lavoro, specie nei settori produttivi e di assistenza, compensano parzialmente il declino della popolazione nativa.

Al tempo stesso, l’integrazione delle seconde generazioni pone nuove sfide: educative, linguistiche, civiche. Scuola e amministrazioni locali, soprattutto nel Nord, sono oggi i laboratori di questa trasformazione. La cittadinanza, osservano gli esperti, “non è solo un diritto ma un processo di appartenenza reciproca”.

L’Italia che emerge dal rapporto Istat è un Paese in transizione: più variegato, più giovane, ma anche più polarizzato. Da una parte le regioni che attraggono e integrano, dall’altra quelle che restano ai margini. In mezzo, milioni di vite che ogni giorno intrecciano storie di lavoro, famiglia e speranza.

Un’Italia che cambia senza clamore, ma che, come scrive l’Istat, “ha già nel suo volto il segno di un futuro plurale”.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori