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L’imam di via Saluzzo nella bufera: “Il 7 ottobre non è violenza”. Montaruli lo vuole "cacciare"

Le parole di Mohamed Shahin, guida della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, scatenano polemiche politiche e religiose. Tra accuse di estremismo, richieste di espulsione e difese dei fedeli, l’imam si giustifica: “Non giustifico la guerra, ma il popolo palestinese ha diritto di difendersi”.

L’imam di via Saluzzo nella bufera: “Il 7 ottobre non è violenza”. Montaruli lo vuole "cacciare"

L’imam di via Saluzzo nella bufera: “Il 7 ottobre non è violenza”. Montaruli lo vuole "cacciare"

"È stato scritto che io giustifico quello che è successo il 7 ottobre, ma la mia risposta è chiara: non posso parlare solamente del 7 ottobre ed è il risultato di un'occupazione di 80 anni, di 11 guerre che sono successe prima di quella data".

Così Mohamed Shahin, l’imam della moschea di via Saluzzo di Torino, ha risposto alle polemiche scoppiate dopo alcune sue dichiarazioni pronunciate durante una manifestazione in piazza Castello, organizzata dal coordinamento Torino per Gaza per celebrare il cessate il fuoco. Da quel momento, il suo nome è diventato oggetto di dibattito politico, mediatico e religioso.

Durante l’intervento, davanti a circa un centinaio di persone, Shahin ha pronunciato parole che hanno fatto il giro dei social: “Io personalmente sono d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre. Noi non siamo qui per essere quella violenza, ma quello che è successo il 7 ottobre 2023 non è una violazione, non è una violenza”.

Frasi che, estrapolate dal contesto, sono state percepite come una giustificazione dell’attacco di Hamas contro Israele, avvenuto il 7 ottobre 2023, nel quale morirono oltre 1.200 civili e centinaia furono presi in ostaggio.

L’imam, che guida la moschea Omar Ibn al-Khattab di via Saluzzo 18, nel quartiere multietnico di San Salvario, è una figura nota nella comunità islamica torinese. Nato in Egitto, vive in Italia da più di vent’anni. È arrivato a Torino nel 2004, dopo aver studiato scienze islamiche e teologia nel suo Paese d’origine. Da allora, si è costruito una reputazione di guida religiosa vicina ai bisogni dei suoi fedeli, con una presenza costante tra i negozi, le famiglie e le associazioni del quartiere. La moschea che dirige non è solo un luogo di culto: è un punto di incontro, una scuola di lingua araba, un centro culturale, una porta aperta per chi cerca assistenza o semplicemente un posto dove sentirsi a casa.

Ma cosa avrebbe detto effettivamente Shahin? Tra le altre cose, che “la terra e la patria santa dei palestinesi è occupata dal 1948, 80 anni fa. Non dal 7 ottobre”. E ancora: “Il 7 ottobre non lo vedo come un’azione, ma come una reazione. Se non posso né uscire, né lavorare, né avere libertà e dignità, devo morire in silenzio? Il popolo palestinese ha il diritto di difendersi”.

La deputata di Fratelli d’Italia, Augusta Montaruli, ha definito le sue affermazioni “gravissime e inequivocabili”, chiedendo l’intervento del Ministero dell’Interno. “Dire che il 7 ottobre non ci fu violenza equivale a sostenere un atto di terrorismo”, ha dichiarato, proponendo di valutare l’espulsione dell’imam e la chiusura temporanea del centro culturale islamico.

Anche il presidente della comunità ebraica di Torino, Dario Disegni, ha espresso profonda indignazione: “È vergognoso che non si riconosca il 7 ottobre come un massacro. Non può essere sempre la comunità ebraica a reagire, ma certe parole non possono passare sotto silenzio”.

Dal fronte del dialogo interreligioso, Giampiero Leo, portavoce del Coordinamento Noi siamo con voi, ha tentato di riportare equilibrio, sottolineando che “gli esponenti musulmani che partecipano al nostro tavolo della pace non condividono queste posizioni. Per loro il 7 ottobre è stato un atto crudele e blasfemo, perché il Corano vieta di uccidere donne, bambini e innocenti”.

Nel frattempo, Shahin ha cercato di difendersi. Il giorno successivo, in un’intervista, ha spiegato che “quello che è successo il 7 ottobre non lo vedo come un’azione, ma come una reazione a un’occupazione di ottant’anni. I palestinesi hanno dovuto fare qualcosa per risvegliare il mondo e attirare attenzione sulla loro causa”. E ha aggiunto: “Io non accetto la violenza, non la faccio, non la permetto da nessuna parte. Dobbiamo essere calmi, sorridenti, mai violenti”.

Ma le sue precisazioni non hanno placato le critiche. Nello stesso intervento pubblico, infatti, Shahin aveva elogiato l’ex presidente egiziano Mohamed Morsi, definendolo “eletto dal popolo e ucciso dai sionisti in carcere”, e aveva attaccato l’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi, chiamandolo “sionista, dittatore, pazzo e criminale”. Inoltre, aveva definito Hamas “un movimento di resistenza legittima”, parole che hanno contribuito a farlo apparire, agli occhi dei più, come un simpatizzante della causa islamista.

Chi lo conosce, però, racconta un’altra storia. Mohamed Shahin, dicono i suoi fedeli, è un uomo schivo, mite, spesso impegnato in attività di volontariato. Vive con la famiglia non lontano dalla moschea, partecipa alle iniziative del quartiere e, fino a poco tempo fa, era considerato un interlocutore affidabile anche dalle istituzioni cittadine. Negli anni passati ha partecipato a incontri sul dialogo interreligioso, fianco a fianco con sacerdoti e rabbini, e aveva preso parte a sopralluoghi nei luoghi di culto di San Salvario insieme a consiglieri comunali e rappresentanti di diverse fedi.

Forse per questo la sua caduta è stata ancora più rumorosa. In molti, anche all’interno della comunità islamica, hanno provato imbarazzo. Alcuni lo difendono: “Ha parlato con il cuore, non con la prudenza”, dicono. Altri si dissociano apertamente: “Quelle parole sono pericolose, alimentano sospetto e divisione”.

Oggi Shahin continua a guidare la sua moschea, che rimane aperta nonostante le pressioni politiche e mediatiche. Le preghiere si svolgono regolarmente, anche se l’aria dentro l’edificio di via Saluzzo è più tesa del solito. La comunità si sente sotto osservazione, e l’imam, che fino a ieri parlava soprattutto di spiritualità e solidarietà, ora è costretto a difendersi dalle accuse di estremismo.

In un quartiere abituato alla convivenza e al mescolarsi di lingue, culture e religioni, le parole di Mohamed Shahin sono diventate il simbolo di una frattura più profonda. Una frattura che non riguarda solo la politica estera, ma la vita quotidiana, il linguaggio con cui si parla di pace, e il confine sempre più sottile tra fede e ideologia. E resta una domanda che Torino, e non solo Torino, non può evitare: quando la parola di un imam scuote così tanto le coscienze, è davvero solo colpa di chi parla — o anche di chi, fino a ieri, non voleva ascoltare?

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