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Meloni detta le domande, il giornalismo obbedisce

Sciopero al Sole 24 Ore dopo l’intervista “su misura” alla premier. Un Paese dove il potere non risponde più alle domande e i giornalisti non possono più farle

Meloni detta le domande

Meloni detta le domande, il giornalismo obbedisce

Un tempo, per essere un politico, bisognava saper parlare, argomentare, affrontare un confronto anche duro, e soprattutto non temere le domande. Oggi, sembra basti saper scegliere chi te le pone. È quello che è accaduto nei giorni scorsi al Sole 24 Ore, dove la redazione è scesa in sciopero compatto contro la decisione del giornale di pubblicare un’intervista alla premier Giorgia Meloni, realizzata da una collaboratrice esterna, la giornalista Maria Latella, mentre il personale interno era in agitazione sindacale.

Una scelta che ha scavalcato la redazione e umiliato la professionalità di chi ogni giorno tiene in piedi il giornale, scatenando la reazione del Comitato di Redazione: “Gli intervistati si scelgono gli intervistatori”. Una frase che pesa come un atto d’accusa. Non solo verso la direzione del quotidiano economico, ma verso un sistema mediatico sempre più piegato alla volontà del potere.

È la fotografia di un tempo in cui la libertà di stampa si misura nei silenzi. Da quasi un anno, la premier non tiene una vera conferenza stampa aperta a tutti i giornalisti. Quando accade, si contano due domande e una fuga, con i ministri a tamponare l’imbarazzo. Ora, persino un’intervista — la forma più antica e nobile del dialogo tra potere e informazione — diventa una messinscena calibrata, affidata a mani “fidate”, lontane da qualsiasi rischio di contraddittorio.

Dietro la facciata del “dialogo con gli italiani” si nasconde un monologo del potere, recitato davanti a telecamere compiacenti e applausi preconfezionati. Non è informazione, è regia politica. Il giornalismo, quello vero, è fatto di domande scomode, di inchieste, di dubbi. Ma il nuovo corso preferisce i copioni, non le domande.

Intanto, il clima si fa pesante. Tra querele temerarie, intimidazioni e minacce, chi osa raccontare ciò che disturba viene messo nel mirino. Lo sa bene Sigfrido Ranucci, volto di Report, che ha collezionato oltre 220 denunce. Dopo l’attentato sotto casa sua, dal governo nessuna parola di solidarietà, solo un silenzio glaciale. È il simbolo di un giornalismo d’inchiesta sempre più isolato, mentre una parte della stampa si piega: c’è chi fa da megafono, chi da cerimoniere, chi da cameriere.

La premier parla di “dialogo con gli italiani”, ma dialogare significa accettare il confronto, non autointervistarsi nei video istituzionali, scegliendo le parole e perfino le pause. Il giornalismo non può ridursi a un teatro di applausi, dove le domande si scrivono a quattro mani con chi detiene il potere.

Oggi il giornalismo italiano è davanti a un bivio: essere vassallo o essere bersaglio. Scegliere la comodità del silenzio o la scomodità della verità. Chi decide di restare libero sa che non verrà perdonato, ma è l’unico modo per non smettere di essere ciò che si è: giornalisti, non portavoce.

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