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Tac di controllo dopo stent nel tronco comune: lo studio Pulse riduce gli infarti, non la mortalità

Presentato a Madrid: 600 pazienti, Tac riduce infarti a 18 mesi, pubblicato su JACC, guida dal team torinese

Tac di controllo dopo stent nel tronco comune: lo studio Pulse riduce gli infarti, non la mortalità

In sala operatoria

Serve davvero una Tac di controllo dopo l’impianto di uno stent sulla principale arteria del cuore? La risposta arriva da Pulse, uno studio multicentrico che, presentato al Congresso Europeo di Cardiologia a Madrid, suggerisce una via più sicura per il follow-up: la Tac coronarica di routine non cambia la mortalità, ma abbassa in modo significativo il rischio di infarto miocardico nei 18 mesi successivi rispetto al semplice monitoraggio dei sintomi.

La Cardiologia universitaria della Città della Salute e della Scienza di Torino, guidata dal professor Gaetano Maria De Ferrari, ha presentato Pulse come strumento per migliorare l’assistenza post-angioplastica in uno dei contesti più delicati: il tronco comune coronarico, la “porta principale” che alimenta gran parte del cuore. È qui che lo studio segna un punto: quando si tratta di prevenire eventi acuti, l’occhio della Tac sembra offrire un vantaggio concreto.

Pulse ha arruolato 600 pazienti sottoposti ad angioplastica con posizionamento di stent sul tronco comune coronarico. I partecipanti sono stati seguiti con due strategie a confronto: - follow-up basato sui sintomi, come da pratica consolidata; - controllo di routine con Tac coronarica. Il confronto ha mostrato un risultato chiaro: la Tac non riduce la mortalità, ma diminuisce in maniera significativa l’incidenza di infarto entro 18 mesi rispetto al solo follow-up clinico.

Lo studio è stato finanziato dal ministero della Salute e coordinato dalla Cardiologia dell’ospedale Molinette, con il professor Fabrizio D’Ascenzo (Città della Salute e Università di Torino), il professor Gianluca Campo (Università di Ferrara) e il dottor Enrico Cerrato (ospedale San Luigi di Orbassano). Hanno partecipato quindici cardiologie italiane e internazionali; in Piemonte, coinvolti anche gli ospedali Giovanni Bosco, Maria Vittoria e Rivoli, con i rispettivi Istituti di Radiologia. A Madrid, la presentazione è stata affidata al dottor Ovidio De Filippo (Cardiologia Molinette) e il commento ufficiale è arrivato dal professor Gregg Stone (New York), tra i massimi esperti mondiali di cardiologia interventistica. I risultati sono stati pubblicati in contemporanea sul Journal of the American College of Cardiology (JACC), una delle riviste più autorevoli del settore.

La fotografia è nitida: sul breve-medio periodo, la Tac coronarica di routine non sposta l’ago della bilancia sulla sopravvivenza, ma aiuta a prevenire eventi ischemici maggiori come l’infarto. È un’informazione clinicamente rilevante perché intercetta il punto che conta nella vita quotidiana dei pazienti: ridurre gli eventi acuti significa meno dolore, meno ricoveri, meno urgenze. E, per i clinici, significa un monitoraggio più mirato di stent posizionati in un distretto coronarico ad alto rischio.



Dove ci conduce questo dato? A una riflessione pragmatica. In un territorio critico come il tronco comune coronarico, inserire la Tac coronarica di routine nel follow-up può rappresentare un investimento di prevenzione: non cambia la mortalità nell’orizzonte osservato, ma riduce gli infarti. È un’argomentazione forte, soprattutto perché arriva da un progetto finanziato pubblicamente, coordinato da centri ad alta specializzazione e validato da una platea internazionale, fino alla pubblicazione su JACC. La decisione finale, tuttavia, resta nel solco della personalizzazione: ogni percorso di follow-up dovrà bilanciare benefici attesi e caratteristiche del singolo paziente, all’interno dei percorsi condivisi dai centri che hanno contribuito allo studio.

Pulse è anche la storia di una rete che funziona: Torino come motore, l’Università di Ferrara e l’ospedale San Luigi di Orbassano tra i nodi centrali, quindici cardiologie coinvolte e, in Piemonte, la sinergia con gli ospedali Giovanni Bosco, Maria Vittoria e Rivoli insieme agli Istituti di Radiologia. Un esempio concreto di come collaborazione e metodo possano tradursi in evidenze che cambiano la pratica clinica, o quantomeno la orientano con dati solidi.

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