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Deposito unico per le scorie nucleari: il Piemonte nel mirino, cinque aree nell’Alessandrino

Dal 2027 la scelta del sito tra 51 aree italiane, entro il 2029 l’autorizzazione e nel 2039 l’entrata in funzione. Ma in provincia di Alessandria già si teme che il Piemonte diventi la “discarica atomica d’Italia”

Deposito unico per le scorie nucleari: il Piemonte nel mirino, cinque aree nell’Alessandrino

Deposito unico per le scorie nucleari: il Piemonte nel mirino, cinque aree nell’Alessandrino

Il futuro dei rifiuti radioattivi italiani potrebbe avere radici profonde in Piemonte. Sono infatti cinque le aree individuate nella provincia di Alessandria come idonee ad ospitare il Deposito nazionale unico per le scorie nucleari: Bosco Marengo-Novi Ligure, Alessandria-Oviglio, Alessandria-Quargnento, Castelnuovo Bormida-Sezzadio e Fubine Monferrato-Quargnento. Una rosa ristretta, emersa durante l’audizione in V Commissione Ambiente del Consiglio regionale, presieduta da Sergio Bartoli (Lista Civica Cirio Presidente PML), che ha visto la partecipazione dei vertici di Sogin, la società pubblica incaricata di localizzare, costruire e gestire l’impianto.

Sergio Bartoli

Sergio Bartoli

Il progetto del Deposito unico non è un’invenzione recente. La procedura, infatti, va avanti da circa quindici anni, tra valutazioni, esclusioni e contestazioni. Dal 5 gennaio 2021 è ufficialmente partito l’iter che dovrebbe concludersi nel 2029, con l’autorizzazione alla costruzione. Se le tappe previste verranno rispettate, l’opera entrerà in funzione nel 2039, dopo quasi due decenni di discussioni, studi e lavori. A fornire i dettagli è stata Annafrancesca Mariani, direttrice del progetto per Sogin: “Il Deposito sarà un’infrastruttura di superficie che consentirà di ottimizzare la gestione dei rifiuti radioattivi prodotti dallo smantellamento delle centrali nucleari italiane – circa il 60% del totale – e da medicina, industria e ricerca scientifica – circa il 40%. La sua capacità sarà di 90.000 metri cubi e permetterà di mettere in sicurezza i materiali per i prossimi 300 anni”.

Si tratta di numeri enormi: un’area di 110 ettari, a cui si aggiungeranno altri 40 per un Parco tecnologico che dovrebbe ospitare laboratori e attività di ricerca. Un investimento da 1,5 miliardi di euro, capace – sulla carta – di generare oltre 4.000 posti di lavoro. Eppure, al di là delle cifre, rimane forte la domanda: quale sarà il territorio chiamato a ospitare un’infrastruttura che divide opinioni e suscita timori profondi?

Il Ministero ha avviato la VAS – Valutazione Ambientale Strategica, una delle fasi cruciali per selezionare il sito finale. Secondo la roadmap, nel 2027 sarà individuata l’area prescelta tra le 51 idonee in tutta Italia (distribuite in sei regioni), mentre nel 2029 dovrebbe arrivare l’autorizzazione vera e propria. Da lì partiranno circa otto anni di lavori, cui seguiranno ulteriori due anni di verifiche da parte delle autorità internazionali prima dell’avvio operativo. Nel frattempo, le scorie non aspettano: sono già presenti in circa venti siti temporanei sparsi in Italia, molti dei quali ospitati in ex centrali nucleari oggi ferme. “Le scorie ci sono già, distribuite sul territorio nazionale” ha spiegato Bartoli, “il Deposito unico serve proprio a superare la frammentazione e a garantire criteri di sicurezza più stringenti di quelli adottati in altri Paesi europei come Spagna e Francia”.

Bartoli, al termine dell’audizione, ha provato a lanciare un messaggio rassicurante ma anche fermo: “Il Piemonte ha già un carico radioattivo elevatissimo. La nostra Regione merita rispetto e piena condivisione su ogni passaggio. Vigileremo perché siano garantiti i massimi standard di sicurezza e trasparenza e, soprattutto, il coinvolgimento delle comunità interessate”. Non si tratta soltanto di procedure tecniche, ma di decisioni politiche che potrebbero cambiare la fisionomia economica e sociale di intere comunità. Le aree candidate, infatti, non sono vuoti geografici: sono zone abitate, caratterizzate da produzioni agricole e da un tessuto sociale che guarda con preoccupazione a un impianto che, inevitabilmente, porta con sé la parola radioattivo.

Sogin ha ricordato che sarà aperta una fase di autocandidatura: Regioni e Comuni compresi nella rosa delle aree idonee potranno esprimersi e decidere se entrare o meno in gioco. Un passaggio che, però, rischia di trasformarsi in una vera e propria prova di forza politica, con comunità locali chiamate a scegliere tra le prospettive di lavoro e investimenti e la paura di diventare per sempre “la discarica atomica d’Italia”.

Il Deposito avrà una durata operativa di 40 anni, ma non è una struttura “a tempo”: una volta terminata la sua attività, scatteranno 300 anni di sorveglianza post-operativa. In altre parole, le comunità coinvolte dovranno convivere con l’impianto non per una generazione, ma per più di dieci. E questo elemento alimenta ulteriormente i dubbi di chi teme che, dietro la promessa di compensazioni economiche, ci sia un fardello destinato a pesare ben oltre le scadenze politiche e i benefici occupazionali.

Insomma, la discussione è aperta e destinata ad accendersi ancora di più. Perché se da un lato il Deposito unico rappresenta la chiusura definitiva del capitolo nucleare italiano, dall’altro significa scegliere un luogo preciso, con nome e cognome, da consegnare alla memoria come “il sito delle scorie”. E oggi, tutti i riflettori sono puntati su Alessandria e il suo territorio.

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