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Sentenza storica a Torino: pena a domicilio se il carcere è sovraffollato

Il Tribunale di sorveglianza riconosce la violazione costituzionale per sofferenza eccessiva e apre un precedente destinato a far discutere

Sentenza storica a Torino

Sentenza storica a Torino: pena a domicilio se il carcere è sovraffollato

Il sovraffollamento carcerario non è più soltanto una statistica da relegare ai rapporti annuali del ministero. A Torino, il Tribunale di sorveglianza ha stabilito che la condizione di celle stipate oltre ogni limite può diventare elemento determinante per la concessione della pena a domicilio, aprendo così una prospettiva che potrebbe cambiare la giurisprudenza italiana.

Il caso riguarda un detenuto ristretto nel carcere Lorusso e Cutugno, struttura che oggi registra un tasso di sovraffollamento superiore al 130%. L’uomo, con una pena residua inferiore ai quattro anni, aveva chiesto di scontarla presso la propria abitazione per motivi di salute. Le patologie indicate – obesità e cardiopatia ischemica – non sono state giudicate di per sé incompatibili con la vita in carcere. Ma i giudici, con un’ordinanza del 5 agosto 2025, hanno riconosciuto che la somma delle sue condizioni fisiche e dell’ambiente degradato in cui era costretto a vivere produceva un livello di sofferenza aggiuntiva in grado di violare i principi costituzionali e convenzionali.

La sentenza richiama esplicitamente l’articolo 27 della Costituzione, che impone che la pena non possa mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e l’articolo 3 della CEDU, che tutela la dignità della persona umana contro trattamenti inumani o degradanti. In altre parole, il carcere torinese – affollato ben oltre la sua capienza regolamentare – è stato riconosciuto come luogo che amplifica le sofferenze di chi vi è recluso, trasformando una condanna in un trattamento contrario ai principi fondanti dello Stato di diritto.

Il tema non è nuovo. L’Italia è stata più volte richiamata da Strasburgo per le condizioni delle sue carceri, a partire dalla sentenza Torreggiani del 2013, che definì “inumane e degradanti” le condizioni detentive di sette detenuti lombardi. Da allora, molto è stato fatto, ma non abbastanza: le statistiche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria segnalano ancora oggi oltre 60mila detenuti per poco più di 51mila posti regolamentari.

La decisione torinese, però, porta un elemento nuovo: per la prima volta il sovraffollamento viene considerato non solo come sfondo, ma come causa diretta di violazione costituzionale, sufficiente a motivare la concessione della pena domiciliare. Una pronuncia che potrebbe aprire la strada a numerose altre istanze, soprattutto da parte di detenuti affetti da patologie croniche o da condizioni fisiche che rendono più difficile la sopportazione di una quotidianità fatta di spazi ridotti, mancanza di privacy e carenza di servizi sanitari.

La questione non è solo giuridica, ma anche politica. Se il sovraffollamento continuerà a pesare sulle carceri italiane, ogni decisione come quella di Torino rischia di trasformarsi in un precedente utile a svuotare le celle per via giudiziaria, più che per riforma legislativa. Di fronte a un’emergenza strutturale, i magistrati si trovano a bilanciare l’esigenza punitiva con quella, non meno cogente, di rispettare i diritti umani.

Un punto, quello sottolineato nell’ordinanza, che non ammette scorciatoie: quando la pena si trasforma in sofferenza inutile e sproporzionata, lo Stato non sta più punendo, ma sta violando i suoi stessi principi.

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