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Chiara Appendino denuncia la violenza digitale: "Le mie foto su siti porno"

L’ex sindaca di Torino racconta la propria esperienza e invita a trasformare lo sdegno in azioni concrete: la rete è specchio di una cultura che discrimina

Chiara Appendino

Chiara Appendino denuncia la violenza digitale: «Le mie foto su siti porno»

Un post durissimo, scritto dall’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, ha riacceso il dibattito su uno dei fenomeni più insidiosi della nostra epoca: la violenza digitale. «Alcune mie foto – come quelle di tante altre donne – sono state pubblicate su un sito pornografico e commentate in modo sessista e degradante innumerevoli volte», ha scritto Appendino. Non è la prima volta che accade: già in passato sue immagini erano finite su forum e spazi online frequentati da uomini che riducono le donne a oggetti, rafforzando stereotipi e legittimando comportamenti degradanti.

Appendino ha sottolineato come la questione non sia personale, ma sistemica. «Questa è violenza – ha affermato – e ciò che più conta è che la violenza digitale è solo la punta dell’iceberg. Perché quello che nasce in rete si riversa nella vita reale: nelle relazioni, nelle discriminazioni, nelle porte che si chiudono». Parole che pesano, soprattutto perché arrivano da una figura pubblica, abituata ad affrontare insulti e sessismo anche nei periodi di governo cittadino. Ma l’ex sindaca sceglie di spostare l’attenzione oltre la propria vicenda: «Io ho la fortuna di potermi difendere perché ho un lavoro e un reddito, ma tante donne non hanno questa possibilità e subiscono in silenzio».

La denuncia non si ferma alla fotografia di un abuso digitale, ma allarga lo sguardo alla cultura patriarcale che ancora plasma il nostro Paese. Appendino parla delle diverse facce della violenza: «Si parte dall’essere giudicata per una gonna corta, dal fischio per strada, dalla paga più bassa a parità di lavoro. Poi ci sono le molestie sugli autobus, la dipendenza economica dal marito, fino alle botte quando si alza la testa».

Il nodo centrale, ribadisce, è culturale: la violenza non nasce dal nulla, ma affonda in una società che fatica a riconoscere pari dignità e pari diritti. Ecco perché la sua conclusione è un appello netto: «Non ci serve più lo sdegno che dura 24 ore, servono fatti, servono azioni per cambiare la cultura ed educare i nostri figli al rispetto, all’affettività e alla parità».

Quello raccontato dall’ex sindaca non è un caso isolato. Secondo i dati raccolti da organizzazioni come l’European Women’s Lobby, oltre la metà delle donne tra i 18 e i 29 anni ha subito qualche forma di molestia online. In Italia, l’Indagine Istat sulla sicurezza rileva che una donna su tre ha ricevuto almeno una volta nella vita attenzioni indesiderate via social o chat. Fenomeni come il “revenge porn”, la diffusione di foto intime senza consenso, e le community digitali che collezionano immagini rubate non sono più eccezioni: sono realtà consolidate, che trovano terreno fertile nella scarsa regolamentazione delle piattaforme e nell’anonimato.

Il caso più noto è stato quello del gruppo Facebook in cui migliaia di uomini condividevano le foto private delle proprie compagne, ignare di tutto. Ma episodi simili sono emersi anche su Telegram, Reddit e forum minori, con migliaia di utenti impegnati a scambiarsi immagini e commenti violenti. La violenza digitale non è confinata a pochi spazi marginali: si inserisce in un sistema globale in cui il corpo femminile viene ancora trattato come un bene pubblico.

La forza del post di Appendino sta nel collegare direttamente la violenza online alle discriminazioni offline. È una continuità che la ricerca scientifica conferma. Gli insulti sessisti in rete non restano virtuali: contribuiscono a normalizzare comportamenti aggressivi nelle relazioni quotidiane, influenzano la percezione della donna nel mondo del lavoro e rafforzano una gerarchia che tiene le donne in posizione subordinata.

Molestie, esclusioni professionali, dipendenze economiche, violenza domestica: il digitale non è un mondo parallelo, ma un acceleratore. La Commissione europea ha definito la violenza online un “moltiplicatore” di quella offline, invitando gli Stati a trattarla come un problema di sicurezza e di diritti civili, non solo come una questione privata.

La riflessione di Appendino coglie nel segno quando sottolinea che non bastano indignazione e comunicati stampa. La sfida è educativa e politica. Educativa, perché bisogna partire dalle scuole e dalle famiglie, insegnando il rispetto del consenso e l’affettività come parte integrante della crescita. Politica, perché senza leggi e strumenti di tutela efficaci, molte donne continueranno a non avere voce. In Italia, la legge sul revenge porn (n. 69/2019, “Codice Rosso”) ha segnato un passo avanti, ma resta molto da fare in termini di prevenzione, sostegno alle vittime e responsabilizzazione delle piattaforme digitali.

C’è anche il nodo delle risorse: i centri antiviolenza e le associazioni che si occupano di supporto alle vittime di cyber-violenza denunciano da anni carenze di fondi e strutture. Eppure la domanda cresce, e con essa la necessità di percorsi di sostegno psicologico, legale ed economico.

Il valore del post di Chiara Appendino è proprio quello di trasformare un’esperienza personale in una denuncia pubblica. Se persino una figura politica e istituzionale può essere colpita da dinamiche di violenza digitale, cosa accade alle donne comuni, prive di visibilità e di strumenti? La risposta è chiara: molte restano in silenzio, altre rinunciano ai social, altre ancora subiscono le ricadute nella vita reale senza poter reagire.

Il messaggio finale dell’ex sindaca, allora, non è solo testimonianza ma chiamata all’azione. Non servono campagne lampo né hashtag che durano il tempo di un trend, ma un impegno strutturale che tenga insieme educazione, giustizia e politiche sociali. Perché finché la rete resterà terreno di impunità e la società continuerà a minimizzare, la violenza troverà sempre nuove forme per manifestarsi.

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