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Tra bambù e onde: quell'indimenticabile estate del ’67

Ci sono estati che non finiscono mai. Restano lì, ferme in un angolo del cuore, come conchiglie che continuano a suonare il mare anche dopo anni

Tra bambù e onde

Tra bambù e onde: quell'indimenticabile estate del ’67

Per me, l’estate del 1967 è così: lucida, luminosa, intatta. Avevo nove anni quando, in una mattina di luglio, mia mamma mi svegliò presto. «Si parte». L’aria di casa sapeva di pane e caffè. Poco dopo eravamo in macchina verso Porta Nuova, a Torino. Sul treno, tra valigie e voci, riconoscevo facce amiche: i vicini, gli amici di via. Non stavo andando al mare da solo, stava partendo un pezzo intero del mio piccolo mondo.

Il viaggio fu lento, scandito da fermate in quasi ogni stazione del Ponente ligure. Ma quando arrivammo a Diano Marina, il caldo dell’asfalto aveva già il profumo di salsedine. Ci venne incontro il fratello della titolare della pensione “La Perla”, una villetta liberty che mi parve elegante come un disegno colorato.
Dopo pranzo, mamma mi prese per mano. Uscimmo da una porta laterale: davanti a noi, campi coltivati e serre lucenti sotto il sole, separate da muri di bambù che frusciavano al vento.

In lontananza, una torre saracena dominava il paesaggio. Alla fine del sentiero, l’azzurro improvviso del mare. Pietre rotonde, acqua trasparente, un frangiflutti artificiale a spezzare le onde. Più in là, le spiagge a pagamento, fitte di sdraio. Noi restammo sulla spiaggia libera: per me andava bene così.

Respiravo profondamente: quell’aria, densa di sale e iodio, era parte della mia cura.
Con mamma camminavo fino a Cervo, tra stradine di pietra che si arrampicavano verso il cielo, o verso il santuario di Nostra Signora della Rovere, con il canto ritmico dei treni che scivolavano lungo la ferrovia.
La sera, il cinema all’aperto. Sedie di legno, il buio caldo di luglio, e un Don Camillo interrotto a tratti dal passaggio fragoroso dei treni, dietro un fragile steccato.

Dopo pranzo, il tempo lento del dondolo: carte in mano, il sole che filtrava tra le tende.
Quando arrivò papà, lo vidi come mai prima: disteso sulla spiaggia, finalmente rilassato. Giocavamo con le biglie dei campioni del ciclismo, ne avevo tre, tutte di Felice Gimondi, fresco vincitore del Giro d’Italia sulle pietre lisce, dove le rotte immaginarie diventavano corse epiche.

Tra i miei tesori, un piccolo aereo di plastica gialla: il Turbo Plan. Lo tenevo legato a un filo trasparente e lo facevo salire sempre più in alto. Un giorno, spinto dall’entusiasmo, allungai troppo il filo. Volò via, verso il mare, fino a scomparire tra le onde.
Ci restai male, ma forse anche quello faceva parte della magia: certe cose restano nel ricordo proprio perché si perdono.
Sulla spiaggia c’era anche il gioco delle “piastrelle”, dischi di gomma che si lanciavano come bocce verso un piccolo boccino. Potevamo passare ore così, tra risate e piccole sfide. E la sera, nella stanza della pensione, costruivo guerre impossibili con i miei soldatini: romani contro tedeschi, inglesi contro antichi egizi. Il mondo, a nove anni, non conosceva frontiere.
Quell’estate durò quindici giorni, ma nella mia memoria non ha mai avuto fine.

Ancora oggi, al tramonto, se chiudo gli occhi, sento il fruscio del bambù, il canto del mare, e l’odore tiepido delle serre, come la prima volta che mamma mi condusse per quel sentiero verso la spiaggia.
Sono tornato a San Bartolomeo tante volte, anche con i miei figli, nella stessa pensione, accolto sempre dal sorriso di Mirella, e poi dalle figlie Marina, Paola e Silvia.

Ogni ritorno era come aprire una finestra su quell’estate, e ritrovarmi ancora lì: tra bambù e onde, nell’anno in cui avevo nove anni.

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