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07 Agosto 2025 - 18:40
La diga di Molare
Il 13 agosto 1935, la diga secondaria del bacino idroelettrico di Molare, nell'Alessandrino, costruita dieci anni prima su terreno franoso, cedette per le piogge eccezionali. Il lago si svuotò in pochi secondi, formando un'onda di tsunami alta 20 metri. Il muro d'acqua scese lungo la vallata del fiume Orba, e devastò tutto quello che trovò sul suo cammino. I morti furono fra 111 e 115, il numero preciso non fu mai accertato. Al processo contro i costruttori della diga, emerse che non erano state fatte perizie geologiche adeguate sul terreno, risultato subito fragile e permeabile. Le "Officine Elettriche Genovesi" avevano costruito in fretta la diga secondaria per alzare il livello del lago, produrre più elettricità e guadagnare di più. Ma la sentenza finale, nel 1938, assolse tutti. Il disastro, dissero i giudici, era stato dovuto alla fatalità di piogge fuori dalla norma.
Novant'anni dopo, Walter Secondino è rimasto l'unico testimone oculare vivente di quel Vajont piemontese. Oggi ha 97 anni, vive a Tagliolo Monferrato, in provincia di Alessandria. Quel 13 agosto del '35 era a casa sua Ovada, la città dove è nato e cresciuto. Aveva solo sette anni, ma ricorda ancora benissimo quello che vide. "Erano le due del pomeriggio", racconta. "Io stavo sul terrazzo di casa, nel rione della Voltegna, con la mia amichetta Carla. È un punto rialzato, sotto vedevo il fiume Orba e il rione Borgo, sull'altra sponda. Quella mattina era piovuto tantissimo. C'era gente che si era raccolta in piazza Castello, all'imbocco del ponte che portava al Borgo e a Rocca Grimalda, per guardare la piena. Anche noi bambini guardavamo il fiume ingrossato".
Walter ricorda che gli adulti si accorsero subito che c'era qualcosa di strano in quella piena. "Di solito, quando c'era la 'bura', così la chiamavamo a Ovada, scendevano rami e tronchi. Stavolta invece la corrente portava culle, letti, armadi. Il Borgo stava proprio sulla riva del fiume. Qualcuno si spaventò e scappò di casa. Ma molti rimasero. E quando l'acqua in strada arrivò a mezzo metro, si ritrovarono in trappola".
"Ricordo la gente che chiedeva aiuto dalle finestre", racconta ancora Secondino. "Poi arrivò l'onda grande. Prima sollevò il ponte per Rocca Grimalda, lo spinse avanti per qualche metro e lo portò via. Poi colpì le case. La corrente le torceva, poi sparivano in una nuvola di polvere e venivano sommerse, con la gente dentro".
Il fratello del padre di Walter, Natale, viveva nel Borgo con la moglie Maria, incinta, e il figlio Stefano, di due anni. "Quando vide la strada allagata", racconta l’anziano testimone, "provò ad aprire il garage davanti a casa, dove aveva l'auto, per portare via la famiglia. Ma l'acqua era troppo alta, non ci riuscì. Allora cercò di tornare a casa per prendere moglie e figlio".
"Ci raccontò che Maria stava sul terrazzo con in braccio il figlio Stefano, chiedeva aiuto", spiega ancora Secondino. "Zio Angelo provò a salire le scale, ma gli crollarono addosso. Riuscì a salvarsi, ma la sua casa e la sua famiglia furono travolte. Un amico riuscì a portarlo via prima che l'onda trascinasse anche lui. Lo ritrovò mio padre il giorno dopo, lo portò a casa nostra".
Di 300 persone che vivevano nel Borgo di Ovada, 97 morirono. I corpi di Maria e del piccolo Stefano furono ritrovati giorni dopo, a chilometri di distanza. Alcune delle vittime non furono mai trovate. "Il Borgo di Ovada fu cancellato", racconta ancora Walter. "Il regime fascista costruì dei casoni per accogliere i senzatetto, la gente del rione si disperse".
Per ricordare quella comunità spazzata via dal disastro, qualche anno fa Walter Secondino scrisse un libro, "Il Borgo di Ovada prima del crollo della Diga di Molare". Dopo un anno di ricerche tra i vecchi ovadesi, riuscì a ricostruire casa per casa le famiglie che lo abitavano, e le 69 attività artigiane e commerciali.
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