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01 Agosto 2025 - 16:10
Giorgio Armani
Una sanzione da 3,5 milioni di euro ha colpito in pieno volto il colosso della moda Giorgio Armani Spa, a cinquant’anni dalla sua fondazione. L’ha inflitta l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha parlato senza mezzi termini di una “pratica commerciale ingannevole” messa in atto dalla maison, in particolare riguardo alle dichiarazioni sulla responsabilità sociale e ambientale dell’azienda. Una vicenda che si inserisce nel solco di un precedente ancora fresco: l’inchiesta per caporalato che, nel luglio 2024, aveva portato a un’amministrazione giudiziaria su una controllata del gruppo, la Giorgio Armani Operations, poi revocata a febbraio 2025 per l’avvio – definito virtuoso – di un percorso di adeguamento alle prescrizioni del Tribunale di Milano.
Ma per l’Antitrust tutto ciò non basta. Il cuore della contestazione è semplice e grave al tempo stesso: Armani avrebbe usato le dichiarazioni etiche come strumento di marketing, promettendo impegni su sostenibilità, etica del lavoro e trasparenza, mentre in realtà la situazione reale delle filiere produttive era ben diversa. L’Autorità ha rilevato che il gruppo avrebbe “reso dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale non veritiere” e “presentate in modo non chiaro, specifico, accurato e inequivocabile”. A finire nel mirino sono stati in particolare i contenuti pubblicati sul portale Armani Values, sul sito istituzionale e nello stesso Codice Etico del gruppo.
Le conclusioni dell’Antitrust si sono fondate su un episodio che aveva già fatto molto rumore. A luglio 2024 la Procura di Milano aveva chiesto l’amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations dopo aver scoperto che alcune borse e accessori in pelle venivano realizzati in condizioni al limite dello sfruttamento, attraverso aziende subfornitrici coinvolte in dinamiche di caporalato. Durante una delle ispezioni della polizia giudiziaria, era stato presente un dipendente della G.A. Operations addetto al controllo qualità. Quest’ultimo avrebbe ammesso di recarsi regolarmente in quel laboratorio, circa una volta al mese da sei mesi. Dettaglio che, secondo l’Antitrust, proverebbe una consapevolezza diretta da parte dell’azienda su ciò che accadeva nei laboratori esterni.
Manifestazione davanti alla Giorgio Armani Operations nel 2017
Non si trattava di percezioni isolate. In un documento interno risalente al 2024, dunque antecedente alla richiesta della procura, la Giorgio Armani Spa avrebbe riconosciuto la problematicità delle condizioni di lavoro: si leggeva infatti che “nella migliore delle situazioni riscontrate, l’ambiente di lavoro è al limite dell’accettabilità; negli altri casi, emergono forti perplessità sulla loro adeguatezza e salubrità”. Frasi che suonano oggi come un’ammissione preventiva, a dispetto delle narrazioni pubbliche diffuse attraverso canali istituzionali e pubblicitari.
L’eco della vicenda arriva anche in Piemonte. Perché tra i poli produttivi del gruppo Armani c’è anche Settimo Torinese, dove la Giorgio Armani Operations ha mantenuto negli anni una delle sue sedi principali. Negli stabilimenti settimesi, un tempo cuore pulsante della pelletteria e della manifattura del gruppo, si sono succeduti passaggi complessi, tra ridimensionamenti, tensioni sindacali e delocalizzazioni. Fino a pochi anni fa vi lavoravano circa 180 addetti, in prevalenza donne, poi in gran parte dislocate all’estero. Oggi l’attività è ridotta ma ancora presente, soprattutto nei settori di progettazione e campionatura. Ed è anche da qui, dal tessuto industriale del Torinese, che passava parte di quella filiera su cui ora si allunga l’ombra di opacità e omissioni.
La reazione dell’azienda è stata immediata e, almeno nei toni, di profonda amarezza. In una nota stampa ufficiale, Giorgio Armani Spa ha comunicato di accogliere con sorpresa e disappunto la decisione dell’Autorità, ricordando che il procedimento era partito nel luglio 2024 e contestava la presunta pubblicità ingannevole su temi etici. L’azienda ha dichiarato l’intenzione di impugnare la delibera davanti al TAR, rivendicando di avere sempre operato “con la massima correttezza e trasparenza nei confronti dei consumatori, del mercato e degli stakeholder”, come testimonierebbe – a loro avviso – la storia cinquantennale del gruppo.
Nel documento trasmesso anche a Il Sole 24 Ore, la società ha criticato l’impostazione dell’Antitrust, ritenendo che l’Autorità si sia basata solo sugli elementi iniziali dell’inchiesta, quelli cioè che avevano giustificato la richiesta di amministrazione giudiziaria, senza tener conto dei rilievi più recenti del Tribunale, che aveva riconosciuto gli sforzi compiuti in pochi mesi dalla Giorgio Armani Operations. La revoca della misura, a febbraio 2025, sarebbe avvenuta infatti proprio per “il virtuoso percorso compiuto dalla società nel solco delle prescrizioni impartite”.
Nella stessa nota si minimizza anche l’impatto reale del fenomeno contestato. L’azienda precisa che le irregolarità emerse nel 2024 coinvolgevano soltanto due fornitori, che nel complesso rappresentavano appena lo 0,7% del totale degli acquisti di lavorazioni o prodotti finiti dell’intero gruppo. Dopo la fase di amministrazione giudiziaria, la maison ha dichiarato di aver ulteriormente rafforzato il sistema di controllo, arrivando a considerarsi un modello di riferimento per l’intera filiera della moda.
Ma per l’Antitrust la questione non riguarda soltanto le percentuali. Il nodo centrale è la coerenza tra ciò che si proclama e ciò che si pratica, specialmente quando si parla di etica d’impresa. In un contesto in cui la sostenibilità è diventata una leva decisiva nel marketing del lusso – anche in risposta alla crescente sensibilità dei consumatori – non è più tollerabile, secondo l’Autorità, che marchi globali costruiscano narrazioni che non trovano riscontro concreto nella realtà della produzione.
Il caso Armani si inserisce infatti in una tendenza più ampia. Negli ultimi anni, l’Antitrust ha già colpito colossi della cosmesi e dell’abbigliamento, con sanzioni per greenwashing, uso improprio di certificazioni ambientali, o comunicazioni vaghe sull’eticità della filiera. La moda, da sempre maestra nel raccontarsi, si trova ora a dover fare i conti con la necessità di dimostrare le parole con i fatti. E il marchio Giorgio Armani, che da mezzo secolo è sinonimo di stile italiano nel mondo, deve oggi affrontare il rischio che dietro l’eleganza delle sue campagne si celi un’immagine ben più opaca.
La battaglia ora si sposta sul piano legale. Ma anche sul terreno dell’opinione pubblica: quello dove le narrazioni contano, ma la credibilità pesa di più.
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