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30 Luglio 2025 - 11:11
Francesco Sciarra Uil
È uno scontro durissimo quello che si sta consumando nelle corsie e nei locali tecnici dell’ospedale di Chivasso, tra la Dussmann Service S.r.l., società che gestisce in appalto il servizio di ristorazione per conto dell’ASL TO4, e la UILTuCS del Canavese, che da mesi denuncia condizioni di lavoro insostenibili per le operatrici addette alla movimentazione dei carrelli termici.
Dopo la chiusura del famigerato “locale lavaggio” – il forno infernale sprovvisto di condizionatori – e dopo l’ennesimo infortunio occorso a una lavoratrice interinale, che si è schiacciata la mano contro lo stipite dell’ascensore mentre cercava di spingere uno dei carrelli pesanti e ingombranti, la misura è sembrata colma. Il sindacato ha detto basta. Da quel giorno – il 23 luglio – i carrelli non si spostano più se non in due. Una decisione unilaterale, netta, irrevocabile.
La risposta di Dussmann non si è fatta attendere. Con una nota formale, l’azienda ha provato a difendersi. E lo ha fatto nel peggiore dei modi: attribuendo alla lavoratrice stessa la responsabilità dell’infortunio.
“Non ha seguito le procedure operative”, scrivono dal Servizio Relazioni Industriali, precisando che l’azione da lei compiuta – tirare il carrello fuori dall’ascensore – “non è conforme alle istruzioni”.
Come se quelle istruzioni fossero sacre, come se si potesse scegliere cosa fare in una situazione in cui l’alternativa è farsi male o lasciare il lavoro a metà.
La reazione del sindacato è stata immediata e durissima. “Siamo interdetti e basiti”, si legge nella replica inviata da Francesco Sciarra, segretario generale della UILTuCS Ivrea e Canavese.
Un atto d’accusa che smonta punto per punto la linea difensiva dell’azienda e ne denuncia “inerzia, superficialità e negligenza”. A cominciare da quel dislivello all’ingresso e all’uscita dagli ascensori, che – secondo il sindacato – era stato segnalato più volte, senza ottenere mai alcun intervento. “Era tutto noto. Eppure non si è mosso nessuno”.
Non mancano i toni sarcastici, duri, amari.
“Escludendo l’utilizzo di formule magiche o di riti sciamanici – scrive Sciarra – ci spiegate come si fa a superare un gradino con un carrello a ruote? Le lavoratrici, nonché i loro arti, attendono ancora una risposta”.
Una domanda che riassume tutto: l’assurdità di una situazione in cui si pretende l’efficienza senza offrire gli strumenti, si chiede la produttività senza garantire sicurezza, si lavora con carrelli che non dovrebbero nemmeno essere lì.
L’azienda si trincera dietro DVR, procedure, attestati di formazione, dichiarazioni di conformità. Ma per la UIL sono solo fogli di carta. “Sappiamo che i carrelli sono certificati, ci mancherebbe”, scrivono. “Ma restano troppo grandi, troppo pesanti, troppo ingombranti per essere spinti da una persona sola nei locali angusti dell’ospedale di Chivasso”. E per chiarire meglio, il sindacato cita testualmente l’articolo 9 del capitolato tecnico firmato da Dussmann: i carrelli, per contratto, “devono essere leggeri, facilmente manovrabili, e consentire una idonea visuale dell’operatore”. Tre requisiti che, secondo la UIL, “non si riscontrano affatto nei carrelli in uso”.
Il punto, allora, non è solo l’infortunio. È tutto il sistema. È il modo in cui si gestisce un appalto pubblico. È la distanza tra le carte firmate negli uffici e la realtà che si vive nei corridoi e nei locali mensa. È quella zona grigia in cui le responsabilità rimbalzano tra chi eroga il servizio e chi lo appalta. Ma nel frattempo, a pagare, sono sempre le stesse: donne precarie, spesso sole, spesso ignorate, spesso esposte a rischi che nessuno ha voglia di vedere.
E proprio su questo, la UILTuCS incalza: “L’accordo commerciale con l’ASL non vi esonera dalle vostre responsabilità. Tutti gli oneri sulla sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro ricadono su di voi. Punto”.
Non serve altro. Non serve invocare il committente. Non serve scaricare la colpa su chi ha meno voce per difendersi. Serve solo prendersi le proprie responsabilità. E agire.
Curioso, poi, che proprio in questi giorni – guarda caso – Dussmann abbia deciso di “affiancare una seconda risorsa” per la movimentazione dei carrelli. Una misura che era stata chiesta da mesi e che l’azienda ha sempre ignorato. Ora, all’improvviso, diventa attuabile. Per paura di nuove denunce? Per salvare la faccia? Per evitare figuracce?
“Lieti che spintaneamente abbiate seguito le nostre indicazioni”, scrive Sciarra con sarcasmo.
Ma il vero messaggio del sindacato è un altro: “Non faremo più un passo indietro”.
E non è solo uno slogan. È una scelta netta, concreta. La sicurezza prima di tutto. Anche senza il permesso di chi dovrebbe garantirla. Anche senza il plauso dei vertici. Anche senza le finte convocazioni e le inutili promesse.
Perché qui si parla di dita schiacciate, braccia rotte, schiene piegate. Si parla di persone. Non di carte. Non di capitolati. Non di audit. Di vite vere. Di lavoro. E di rispetto.
C’è qualcosa di profondamente ingiusto – e sistemico – in quanto sta accadendo all’ospedale di Chivasso. Un meccanismo perfettamente oliato, che si attiva ogni volta che un lavoratore si fa male. È la macchina dello scaricabarile: silenziosa, efficiente, spietata. Dove chi subisce un infortunio non riceve né solidarietà né protezione, ma una lettera che gli spiega, con linguaggio freddo e legale, che la colpa è sua. Perché non ha rispettato le “procedure operative”. Come se fosse un robot, e non una persona.
È accaduto a una lavoratrice interinale, ferita nel tentativo di spostare un carrello termico all’interno del presidio ospedaliero. E la risposta dell’azienda – la Dussmann Service S.r.l., che gestisce il servizio di ristorazione in appalto – è stata tanto prevedibile quanto disumana: “non ha seguito le istruzioni”. Nessuna parola di vicinanza, nessuna presa in carico, nessuna assunzione di responsabilità. Solo l’indice puntato.
Ma c’è un’altra assenza, forse ancor più grave. Un’assenza che pesa come un macigno, perché riguarda chi, in teoria, dovrebbe garantire l’incolumità e la dignità dei lavoratori in una struttura sanitaria pubblica: il direttore generale dell’ASL TO4, Luigi Vercellino.
In tutta questa vicenda, il silenzio dell’ASL è assordante. Come se i lavoratori non operassero all’interno di una struttura pubblica. Come se i dislivelli degli ascensori, i locali angusti, i carrelli sovradimensionati non fossero parte della loro responsabilità. Come se l’infortunio non fosse avvenuto in casa loro.
E invece no: nessuna parola, nessuna convocazione, nessuna verifica indipendente. Mentre l’azienda cerca di difendersi tirando fuori il DVR e la dichiarazione di conformità dei carrelli, l’ASL tace. Mentre il sindacato denuncia pubblicamente mesi di segnalazioni inascoltate, l’ASL tace. Mentre una lavoratrice resta ferita e viene pure accusata, Vercellino non si degna nemmeno di far sapere se è informato dei fatti.
Eppure la verità è semplice: quei lavoratori sono lì in nome di un contratto pubblico. Operano all’interno di spazi forniti dall’ASL. Sono parte, a tutti gli effetti, del sistema sanitario locale. Quando c’è da garantire il servizio, si fa valere il contratto d’appalto. Quando c’è da tutelare i lavoratori, però, tutti scompaiono.
La UILTuCS del Canavese, che in questa storia ha l’unico merito – enorme – di aver detto basta, ha scritto anche a SPRESAL, Regione, Ispettorato, SCR e, ovviamente, all’ASL TO4. Ma nessuno, nemmeno tra i vertici dell’Azienda Sanitaria, ha sentito il bisogno di prendere pubblicamente posizione. Non una nota, non una visita in reparto, non un richiamo alla responsabilità. Solo silenzio. Il silenzio del potere quando si sente al sicuro.
E allora la domanda è inevitabile: perché Luigi Vercellino non parla? Perché, in qualità di direttore generale, non spiega ai cittadini e ai lavoratori se ritiene che tutto questo sia accettabile? Se è normale che una dipendente venga ferita in un luogo sotto la sua gestione indiretta? Se è normale che il committente pubblico non pretenda interventi tempestivi? Se è normale che il diritto alla sicurezza venga difeso solo da un sindacato e non da chi dovrebbe garantire, per missione istituzionale, “cure e benessere” anche a chi nei reparti ci lavora, non solo a chi ci entra da paziente?
Non si chiedono miracoli. Si chiedono risposte. Si chiede che l’ASL TO4, in quanto soggetto pubblico, riconosca che il benessere organizzativo non può fermarsi ai dipendenti diretti e dimenticare chi lavora negli appalti. Si chiede che si affrontino le criticità note da tempo: carrelli inadeguati, spazi stretti, solitudine operativa. E soprattutto che non si accetti mai – mai – che la colpa venga scaricata sulla parte più debole.
Il silenzio, in questi casi, non è neutralità. È complicità. È lasciar passare l’idea che la sicurezza possa essere un optional. Che la dignità possa essere negoziata. Che i lavoratori si possano usare, consumare e accusare. E questo, in un ospedale pubblico, non è tollerabile.
Perché oggi è una mano schiacciata. Domani? Chi pagherà quando accadrà qualcosa di peggio?
Direttore Vercellino, il tempo del silenzio è finito. Ci dica da che parte sta...
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