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Ritorno alla leva obbligatoria? L'Italia pensa alle nuove sfide della difesa civile

Tensioni internazionali, difesa comune e identità civile: il ritorno del servizio obbligatorio divide l’opinione pubblica e la politica

Leva obbligatoria: l'Italia riapre il dibattito tra difesa e reclutamento

Ritorno alla leva obbligatoria? L'Italia pensa alle nuove sfide della difesa civile

Negli ultimi mesi, il servizio militare obbligatorio – o una sua versione moderna – è tornato al centro della scena. A quasi vent’anni dalla sospensione ufficiale della leva in Italia, il contesto internazionale, sempre più instabile, spinge governi e forze armate a interrogarsi su come rafforzare la difesa nazionale e il senso di appartenenza civica. Mentre mezza Europa ripristina o rafforza sistemi di coscrizione, l’Italia appare ferma, ma i segnali che qualcosa potrebbe cambiare si fanno sempre più concreti.

Il contesto è ben definito. La guerra in Ucraina, in corso dal 2014 e degenerata nel 2022 in un conflitto su larga scala, ha riacceso timori sopiti. Nonostante l’ipotesi di uno scontro diretto tra NATO e Russia resti remota per molti analisti, l’impressione generale, soprattutto nei paesi nordici e baltici, è che serva prepararsi al peggio. E questo non solo in termini militari, ma anche culturali: le popolazioni devono riappropriarsi dell’idea di difesa come bene collettivo.

La Svezia, entrata nella NATO nel 2024, ha reintrodotto la leva già nel 2017. In Norvegia e Finlandia, uomini e donne prestano servizio senza distinzioni di genere. In Estonia e Lituania, la coscrizione è considerata un pilastro della sovranità nazionale. E anche in Germania, dove il dibattito sembrava archiviato, il cancelliere Olaf Scholz ha rotto il silenzio: "Servono nuove forme di reclutamento", ha dichiarato, aprendo alla possibilità di una leva universale, magari con finalità anche sociali.

E l’Italia? La nostra Costituzione – precisamente l’articolo 52 – prevede ancora l’obbligatorietà del servizio militare, ma lascia al legislatore la definizione delle modalità. In realtà, con la legge 226 del 2004, il servizio è stato sospeso a partire dal 1° gennaio 2005, non abolito. Tecnicamente, basterebbe un atto del governo per riattivarlo. Un’ipotesi che sembra lontana, ma che non è più tabù.

Esponenti di più partiti – dalla Lega a pezzi del centrosinistra – hanno recentemente proposto di ripensare la leva in chiave educativa o civile. L’idea è quella di un servizio universale breve, aperto a tutti, magari ispirato al Service National Universel francese. Non si tratterebbe di addestrare soldati, ma di formare cittadini: giovani coinvolti in attività sociali, ambientali, di protezione civile o di assistenza alle fasce più fragili. Una sorta di "palestra civica", che alcuni vedono come risposta alle emergenze sociali e identitarie di una generazione disillusa.

Anche dalle forze armate arrivano segnali di apertura. Il capo di Stato Maggiore della Difesa, Giuseppe Cavo Dragone, ha parlato più volte della necessità di ripensare la riserva militare, e di coinvolgere in modo strutturato i cittadini in attività connesse alla sicurezza e alla protezione del territorio. Un’esigenza che si collega a un altro nodo cruciale: l’aumento della spesa per la difesa.

All’ultimo vertice NATO dell’Aia, è emersa la proposta – promossa da Stati Uniti, Polonia e paesi baltici – di portare gli investimenti militari fino al 5% del PIL. Oggi l’Italia è al 1,5%, e non sembra intenzionata ad andare oltre il 2% concordato nel 2014. Una posizione che isola il nostro paese rispetto alla media europea, e che rende ancora più urgente il confronto interno su quali strumenti adottare per garantire la sicurezza nazionale in uno scenario in evoluzione.

Nel frattempo, i sondaggi fotografano un’Italia divisa. La maggioranza degli italiani non vuole aumentare le spese militari, ma cresce – lentamente – il numero di cittadini favorevoli a un ritorno della leva, soprattutto se di tipo civile e con durata limitata. Il consenso resta comunque minoranza, segno che le ferite del passato non sono del tutto rimarginate. La leva degli anni ’80 e ’90 era spesso vissuta come una costrizione, inutile o vessatoria, e non mancano oggi le voci critiche, che parlano di ritorno al passato e di scarsa efficacia operativa.

Ma il contesto è cambiato. A pesare non sono più solo le minacce militari, ma anche quelle ibride: cybersicurezza, cambiamento climatico, emergenze sanitarie, disinformazione. In questo quadro, il concetto stesso di difesa si allarga, e con esso quello di leva. Non solo divisa e fucile, ma anche formazione tecnica, cooperazione, resilienza sociale.

Le nuove generazioni, spesso etichettate come distanti dalla politica o disimpegnate, potrebbero invece rappresentare la risorsa chiave di una leva moderna. Una leva pensata non per militarizzare, ma per educare alla cittadinanza attiva, creare reti di solidarietà, insegnare competenze utili anche nel mondo del lavoro.

Per ora il dibattito è aperto. Ma in un’Europa che si riarma, che riscopre il concetto di difesa comune, e che si interroga su come costruire coesione sociale in tempi di crisi, è difficile pensare che il tema possa essere archiviato. L’Italia, come spesso accade, resta a metà strada: osserva, riflette, ma non decide.

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