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Sanità
15 Luglio 2025 - 15:02
Sistema sanitario italiano in crisi: mobilità dei pazienti e intanto la spesa sale a 28 miliardi
Sette milioni e 670mila ricoveri ospedalieri, 28 miliardi di euro di spesa, un'Italia sempre più divisa tra chi cura e chi scappa per farsi curare. È questo il quadro che emerge dal Rapporto Sdo 2023 (Scheda di Dimissione Ospedaliera), il documento annuale del Ministero della Salute che fotografa lo stato di salute – e di crisi – del sistema ospedaliero nazionale.
Nel confronto con il 2022, il numero dei ricoveri è aumentato del 4,3%, segno di un ritorno alla normalità post-pandemica, ma siamo ancora lontani dai livelli pre-Covid. Eppure il conto economico corre lo stesso: un miliardo in più di spesa rispetto all’anno precedente, per un totale di 28 miliardi di euro investiti nella cura in degenza. Una cifra che, da sola, occupa una fetta importante della spesa sanitaria pubblica.
Ma a preoccupare di più è l'elemento strutturale della mobilità sanitaria. In media, l’8,5% dei pazienti italiani si sposta in un’altra regione per farsi curare. Un fenomeno che non è nuovo, ma che nel 2023 si è stabilizzato, consolidando gravi disuguaglianze territoriali: la Calabria sfiora il 22% di pazienti in uscita, seguita da Molise, Basilicata e Campania. Le destinazioni preferite? Sempre le stesse: Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, veri e propri poli di attrazione grazie a un'offerta sanitaria più efficiente, tempestiva e dotata di infrastrutture d’avanguardia.
Secondo le stime dell’Agenas (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali), questa fuga vale da sola 2,8 miliardi di euro, che finiscono nelle casse delle regioni accoglienti e sottraggono risorse e potenziale alle regioni d’origine. Un trasferimento di denaro e fiducia, che conferma il fallimento delle politiche di riequilibrio sanitario tra Nord e Sud.
Sul fronte delle patologie trattate, la casistica più frequente resta il parto vaginale, con un dato positivo: i cesarei sono in calo, al 32%, ma ancora lontani dallo standard raccomandato dall’OMS (intorno al 15%). L’ospedalizzazione per acuti – che rappresenta il 95% dell’attività – continua a vedere la prevalenza del ricovero ordinario (73%) rispetto al day hospital (22%), con una degenza media di circa 7 giorni, in diminuzione rispetto ai 7,5 giorni del 2020. Un dato che suggerisce miglioramenti nell’efficienza organizzativa, ulteriormente confermati dalla riduzione della degenza pre-operatoria a 1,6 giorni.
In crescita significativa anche la riabilitazione, con un aumento del 10% dei ricoveri ordinari e dell’8% in day hospital. Qui però il sistema si spacca: mentre il 75% dei ricoveri per acuti avviene in strutture pubbliche, il 75% della riabilitazione è invece gestita da privati accreditati. Una tendenza che lascia intravedere l’avanzata del privato in un settore strategico, ma che apre interrogativi sull’equità di accesso e sulla capacità del pubblico di intercettare il bisogno crescente di recupero post-malattia o post-intervento.
L’Italia della salute, dunque, è in lenta ripresa, ma anche profondamente diseguale. Da un lato i “super ospedali” del Nord – come illustrato in un altro segmento del Rapporto – che attirano pazienti da tutto il Paese, dall’altro le aree interne e del Mezzogiorno che faticano a garantire il diritto alla salute vicino casa. Una questione non più solo tecnica, ma politica e culturale, che chiama in causa non solo le regioni, ma anche lo Stato centrale, cui spetta il compito di garantire livelli essenziali di assistenza ovunque.
Nel frattempo, la spesa sale, i pazienti si muovono, e la cartina della salute italiana somiglia sempre più a un mosaico fratturato, dove la qualità della cura dipende troppo spesso dal codice di avviamento postale.
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