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10 Luglio 2025 - 15:09
L'ero di Torino: si arrampica tra le fiamme per salvare una donna sconosciuta
C’è un punto preciso, all’altezza del civico 9 di corso Giulio Cesare, a Torino, dove pochi giorni fa si è consumata una scena da film. Ma non è fiction, né retorica: è una storia vera. E al centro c’è Abdelhafid Masfar, trentenne algerino, venditore ambulante, irregolare sul territorio italiano, che ha salvato la vita a una donna intrappolata in un appartamento in fiamme.
Il pomeriggio sembrava uguale a tanti altri, con il via vai di residenti e negozianti nella zona tra Aurora e Porta Palazzo. Abdelhafid, da sei mesi in Italia, stava parlando con un amico, Abdullah Raddad, quando ha sentito le grida: "Fuoco, fuoco, fuoco!". Non ha aspettato nemmeno un secondo. Ha visto il fumo uscire dalla finestra al primo piano, ha corso, si è arrampicato sulla grondaia e, con una ginocchiata, ha sfondato il vetro dell’abitazione.
Dentro, il buio e il fumo rendevano quasi impossibile respirare. Ma Abdelhafid non si è fermato: ha individuato una donna priva di sensi sul pavimento, l’ha sollevata, l’ha trascinata fino alla finestra per farle respirare e poi, con la torcia del cellulare, ha trovato la porta d’ingresso. Dall’altra parte, i vicini, accorsi nel frattempo, hanno completato l’opera: la donna è stata tratta in salvo e, grazie a quel gesto istintivo e disperato, oggi è viva.
Il fuoco, domato dai vigili del fuoco, ha lasciato i suoi segni. Ma a fare notizia non è stata la dinamica dell’incendio, bensì quel gesto di puro altruismo, compiuto da un uomo che non ha documenti, non ha un lavoro fisso, e che quotidianamente fatica a rimanere in equilibrio tra la precarietà e il desiderio di costruirsi una vita.
“Non ci ho pensato due volte. Ho visto quella donna come fosse mia madre”, ha detto con semplicità Abdelhafid. Una frase che risuona come un pugno nello stomaco, perché arriva da un giovane che non ha nulla, ma che ha dato tutto in quell’istante. A dimostrazione che il coraggio e la dignità non hanno nazionalità, né permessi di soggiorno.
Il giorno dopo, Abdelhafid è tornato sotto quel palazzo annerito con una rosa rossa tra le mani. Voleva regalarla alla donna che aveva salvato. Non è riuscito a trovarla, ma quel gesto delicato ha colpito profondamente chi l’ha visto. Un fiore come segno di rispetto, di umanità, di un legame silenzioso ma fortissimo che si è creato in pochi minuti tra due sconosciuti.
Oggi Abdelhafid vive ancora nell’irregolarità, vende oggetti per strada, cerca qualche lavoretto saltuario. Eppure non si lamenta. “Amo Torino e l’Italia. Ho studiato per fare l’elettricista e il decoratore. Spero di trovare un lavoro regolare e restare qui”. Le sue parole non hanno rabbia, solo una ferma speranza, quella che chi compie un gesto di valore venga riconosciuto come parte della comunità.
Nel frattempo, tra chi vive in zona, il suo nome gira sottovoce, accompagnato da un misto di stupore e gratitudine. Perché in una città spesso abituata alla diffidenza, un atto del genere spezza la narrazione dominante e costringe a guardare oltre la superficie. C’è chi chiede che venga riconosciuta la cittadinanza onoraria, chi propone un permesso di soggiorno per meriti civili, chi si limita a salutarlo con rispetto.
Non è la prima volta che Torino assiste a un gesto simile. Nel 2019, fu Mamadou Gassama, migrante maliano a Parigi, a scalare una facciata per salvare un bambino: venne premiato con la cittadinanza francese. Abdelhafid non chiede nulla, ma una riflessione collettiva si impone: chi salva una vita non può essere trattato come invisibile.
Il suo gesto ha rotto l’anonimato, la rosa ha detto quello che le parole spesso non riescono a esprimere. Ora la palla passa alla città, alle istituzioni, a chi può decidere se lasciar cadere questa storia nel dimenticatoio o se trasformarla in un’occasione di riscatto.
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