Cerca

Attualità

Salvatore Borsellino gela il Comune del Canavese: "Giù le mani da mio fratello Paolo"

Il fratello del magistrato contro l'amministrazione comunale: “Assenti quando contava”

Salvatore Borsellino gela il Comune del sindaco Marsaglia: "Giù le mani da mio fratello Paolo"

Salvatore Borsellino gela il Comune del sindaco Marsaglia: "Giù le mani da mio fratello Paolo"

«Non voglio commemorazioni per il 19 luglio da parte di questa Amministrazione». Parole dure, nette, che non ammettono repliche. Le ha pronunciate Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, ucciso in via D’Amelio il 19 luglio del 1992, e custode instancabile della sua memoria.

Un monito che pesa come un macigno su chi guida oggi Caselle Torinese, una città che, almeno sulla carta, dovrebbe avere nel proprio dna la cultura della legalità. E invece no. Perché per Salvatore, la memoria non si costruisce a colpi di corone d’alloro, ma di presenze concrete, scelte coraggiose e coerenza.

E proprio la coerenza, stavolta, è venuta a mancare. «Il 14 giugno vi siete defilati, e questo mi dice tutto», scrive Salvatore. Si riferisce a un episodio preciso, recente, simbolico: la premiazione di Mauro Esposito, testimone di giustizia, su mandato del Consiglio comunale. In Sala Cervi c’erano tutti: lui, Salvatore, i rappresentanti delle Agende Rosse, i cittadini, gli attivisti. Tutti tranne uno: il Comune. Nessun assessore, nessun consigliere. Nessun sindaco. Nessuna fascia tricolore. Un’assenza che ha fatto più rumore di un comizio.

E la rabbia, stavolta, non si è limitata a un post. È diventata denuncia pubblica. «Scusate lo sfogo ma il Consiglio Comunale di Caselle ha perso davvero un’occasione, facendosi una bruttissima figura NON CON ME ma con tutte le persone che sono venute a raccontare la loro storia e con i molti cittadini presenti», ha scritto Mauro Esposito il giorno stesso sui social. «Caro Salvatore Messina, avete invitato ed accettato di invitare a casa vostra illustri ospiti che arrivavano da tutta Italia (Borsellino è venuto da solo da Milano con l’auto, 83 anni, convalescente da un’operazione agli occhi, e nonostante non fosse presente il suo autista) e voi non c’eravate. A casa vostra!!!».

Esposito ha puntato il dito contro chi avrebbe dovuto fare gli onori di casa, e ha espresso delusione anche per Paolo Di Giannantonio, giornalista Rai: «L’ho visto molto provato e sconcertato e spero che possa aprire un’inchiesta televisiva raccontando l’accaduto». Poi la scelta di ritirare pubblicamente i ringraziamenti: «Ovviamente ritratto i miei ringraziamenti fatti con il cuore quando appresi della scelta di premiarmi e lo farò anche pubblicamente». Infine, la stoccata: «La guerra alle mafie è una cosa seria. E voi non siete seri». Parole che hanno lasciato il segno.

E oggi, a distanza di poche settimane, Mauro Esposito torna a sostenere con forza la scelta di Salvatore Borsellino: «Il mio amico Salvatore Borsellino ha dato un segnale forte e chiaro all’Amministrazione di Caselle Torinese: “Non fate nessuna commemorazione il 19 luglio in occasione dell’anniversario della morte di mio fratello Paolo!!” Non ci si lava la coscienza in questo modo. Era un obbligo essere presenti il 14/06/2025 ad un evento da voi organizzato».

Caselle ha mancato l’appuntamento con la storia. Ha scelto l’assenza. E Salvatore, fedele al suo rigore morale, ha scelto il silenzio. Niente fiaccolate, niente frasi preconfezionate. «Le assenze, come quella del 14 giugno, non si cancellano con una commemorazione tardiva». La memoria, per lui, è una cosa seria. E non accetta sconti.

In un’Italia che spesso confonde la retorica con l’impegno, la testimonianza di Salvatore Borsellino è un faro. E oggi più che mai, il suo rifiuto vale più di mille cerimonie: è una lezione di dignità, uno schiaffo all’ipocrisia istituzionale, un richiamo alla coerenza. Perché chi davvero crede nella giustizia, la pratica ogni giorno. Anche – e soprattutto – quando non conviene.

Chi era Paolo Borsellino

Paolo Borsellino era un magistrato. Ma non solo. Era un uomo che credeva nella giustizia fino all’ultimo respiro. Nato a Palermo il 19 gennaio 1940, ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro la mafia, mettendo a rischio se stesso, la propria famiglia, la propria esistenza. Cresciuto nello stesso quartiere di Giovanni Falcone, con cui avrebbe poi condiviso non solo il lavoro ma una battaglia comune, entra in magistratura a 23 anni. Da lì in poi, la sua carriera si intreccia con la storia nera del nostro Paese.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Lavora a Marsala, poi torna a Palermo, e diventa uno dei punti di riferimento del pool antimafia voluto da Rocco Chinnici e guidato da Antonino Caponnetto. È l’artefice, insieme a Falcone, del maxiprocesso che inchioda Cosa Nostra e apre una ferita nel sistema di potere mafioso che non si sarebbe mai più rimarginata.

Dopo la strage di Capaci, in cui muore Giovanni Falcone, Paolo sa di essere il prossimo. Non lo dice apertamente, ma lo lascia intendere in ogni gesto. Non si tira indietro. Anzi. Continua a lavorare, a indagare, a cercare la verità. Anche su quella maledetta agenda rossa, scomparsa pochi minuti dopo la sua morte.

Viene ucciso il 19 luglio 1992, alle 16.58, in via D’Amelio, insieme agli agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Una strage. Un’esecuzione. Un colpo al cuore dello Stato.

Da allora, Paolo Borsellino è diventato simbolo. Ma per il fratello Salvatore, e per chi continua a lottare, Paolo non è solo un’icona: è un impegno quotidiano. È una scelta scomoda. È una memoria viva, che pretende verità, giustizia e coerenza. Non cerimonie. Non ipocrisie. Non silenzi.

Perché ricordare Paolo non è un obbligo del calendario. È un dovere morale. E un atto politico.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori