l’ordinanza anti-burqa è durata quanto una fiammata estiva. Dopo il clamore, le polemiche e il prevedibile carosello mediatico, il sindaco Daniele Pane ha deciso di fare marcia indietro: il provvedimento che vietava di coprirsi il volto in pubblico è stato revocato. Un gesto che, al netto delle giustificazioni di rito, suona come un passo indietro salutare. Perché in un Paese che ha già una legge nazionale sul tema, non c’era bisogno di un proclama municipale infarcito di retorica securitaria e paternalismo culturale.
Eppure, solo pochi giorni fa, Pane rivendicava con orgoglio la sua ordinanza: un divieto assoluto, su tutto ciò che rendeva “irriconoscibile” il volto. Niqab, burqa, maschere, caschi, sciarpe, perfino il fantasma della paura. Per chi non si adeguava, multe da 100 a 300 euro e rimozione forzata dell’indumento. La motivazione? La solita: legalità, sicurezza, ordine pubblico. Con l’aggiunta paternalista della “tutela della dignità delle donne”. Una frase che, nel contesto, suonava più come una imposizione culturale mascherata da protezione.
Il provvedimento aveva scatenato un polverone. Non solo per il contenuto, ma per il messaggio implicito: a Trino si può entrare, ma solo se ci si conforma a uno standard visivo ben preciso. Un’idea di sicurezza tutta centrata sull’apparenza, che confonde la libertà con l’uniformità e l’integrazione con la sorveglianza.

Poi, qualcosa è cambiato. I controlli sono stati fatti, le persone a volto coperto sono state identificate e informate. Nessun problema, nessuna minaccia. Nessun motivo, insomma, per mantenere in vita un’ordinanza che sembrava fatta più per l’eco politico che per reale necessità. E così, a distanza di pochi giorni, il dietrofront. L’ordinanza viene archiviata, con una comunicazione via social che tenta di salvare la faccia: “La legge resta”. Vero. Ma la legge c’era anche prima. E forse, sarebbe bastato ricordarla, senza bisogno di agitare spauracchi o di impugnare penne come scimitarre.
Nel Vercellese, la sicurezza non è mai stata messa in discussione da un velo. Ma lo è, semmai, da scelte amministrative che giocano con simboli e identità senza una reale urgenza sociale. L’ordinanza di Pane si era iscritta in quella linea di decreti dimostrativi che vogliono “dare un segnale”, ma spesso finiscono solo per alimentare diffidenza e divisione.
Revocarla, oggi, è un atto di buon senso. Anche se tardivo. Anche se accompagnato dal solito “non è un dietrofront”. Ma lo è. E va detto: meglio così.
Nel frattempo, Trino si risveglia senza più il cartello del “vietato coprirsi il volto”. Magari si sentirà un po’ meno blindata, e un po’ più libera. Perché la sicurezza vera non ha bisogno di ordinanze teatrali, ma di fiducia, cultura, dialogo. E magari anche di un sindaco capace di distinguere i problemi reali da quelli inventati.