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26 Giugno 2025 - 15:34
Gaza, bambini uccisi mentre cercano un tozzo di pane
A Gaza la fame è diventata una condanna a morte. I centri per la distribuzione degli aiuti umanitari, nati per salvare vite, si sono trasformati in zone di morte. L’allarme arriva da Save the Children, che denuncia una situazione sempre più insostenibile: «Quello che accade è disumano. Nessuno dovrebbe morire cercando cibo. Men che meno i bambini».
Secondo i dati raccolti dall’organizzazione, in oltre la metà degli attacchi letali ai punti di distribuzione sono stati coinvolti bambini. Tra il 27 maggio e il 25 giugno, in 10 su 19 incidenti mortali, ci sono stati minori uccisi o feriti. In totale, secondo le stime dell’OHCHR, più di 500 palestinesi sono stati uccisi e almeno 3.000 feriti mentre cercavano di accedere agli aiuti umanitari distribuiti dal Gaza Humanitarian Foundation (GHF) o da altri convogli delle Nazioni Unite.
Le testimonianze raccolte dai collaboratori sul campo parlano di scene terribili. Uomini falciati dai proiettili mentre correvano verso un sacco di farina, bambini mandati dai genitori troppo deboli per muoversi, corpi lasciati a terra senza possibilità di soccorso. Un padre di famiglia è stato colpito a Rafah mentre cercava del pane per i suoi figli. Un altro testimone ha raccontato di persone costrette a calpestare i feriti pur di arrivare al cibo. In un caso, un collega dell’organizzazione ha riferito che, nonostante la sua famiglia sopravviva con un solo pasto al giorno, non andrà più in un centro GHF: «La mia vita vale più di un sacco di farina».
In queste condizioni, la paura ha superato la fame. Molte famiglie ormai rinunciano a recarsi nei punti di consegna per timore di non tornare. Alcune sono troppo deboli, altre semplicemente rassegnate. Chi può contare su una rete di vicinato, si affida a chi è ancora in grado di muoversi. Gli altri aspettano. O muoiono in silenzio.
Il problema non è solo la violenza diretta. L’assedio di Israele ha ridotto all’osso l’ingresso di beni essenziali nella Striscia. Le Nazioni Unite parlano di “scarsità artificialmente indotta”. L’acqua potabile, i generi alimentari di base e i carburanti sono bloccati, e il mercato nero dilaga, accessibile solo a chi ha ancora qualcosa da scambiare. In questo contesto, l’accesso agli aiuti è diventato l’ultima speranza. Eppure, anche quella viene uccisa.
Ahmad Alhendawi, direttore regionale di Save the Children, ha condannato con parole durissime la gestione dei centri di distribuzione: «Non si può permettere che l’accesso umanitario venga trasformato in un’arma di guerra. Costringere i civili a radunarsi in spazi recintati per poi aprire il fuoco è l’opposto dell’umanitario. È disumano».
L’organizzazione continua a operare tra mille difficoltà. A Deir Al-Balah, Save the Children gestisce un centro sanitario primario che offre screening nutrizionali e cure di base a donne e bambini. Altri team forniscono acqua potabile, gestiscono spazi sicuri per i bambini, organizzano attività psicosociali e mantengono centri di apprendimento temporanei. Ma la situazione peggiora di giorno in giorno. Dalla fine della pausa bellica del 18 marzo, è diventato quasi impossibile garantire continuità nei servizi.
Le famiglie, intanto, vivono nel terrore costante, tra sirene, droni, e la disperazione di chi sa di non avere più nulla da perdere. E mentre le diplomazie internazionali restano immobili, a Gaza si muore per un pugno di pane, per un sacco di farina, per il diritto alla sopravvivenza.
Il mondo assiste. Ma il tempo è scaduto. È tempo che gli Stati decidano da che parte stare: con il diritto internazionale o con l’arma della fame. È tempo di fermare il fuoco, di proteggere i civili, di restituire ai bambini la possibilità di un futuro.
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