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60 anni di amicizia e preghiera: le baracche di Ceresole Reale

“Un tuffo nei ricordi”: oltre 300 persone per festeggiare il traguardo

60 anni di amicizia e preghiera: le baracche di Ceresole Reale

Ci sono posti che segnano le vite. Che si attaccano alla pelle, alla memoria, agli odori. E che, anche quando il tempo passa, rimangono lì, come fossero stati costruiti dentro. Non importa se sono fatte di legno, di pietra, di ricordi. Le baracche di Ceresole Reale sono tutto questo. E domenica, sessant’anni dopo la loro prima estate, oltre 300 persone si sono date appuntamento per dirlo forte e chiaro: noi ci siamo passati, e non siamo più stati gli stessi.

A oltre 1.600 metri d’altitudine, nella borgata Villa di Ceresole Reale, una festa ha risvegliato generazioni. Chi ci ha vissuto i giochi da bambino. Chi ci ha pregato, chi ci ha cucinato. Chi ha dormito nel sacco a pelo, chi ha acceso il fuoco, chi ha cantato stonato nelle notti alpine. Chi ci è arrivato pieno di domande e ne è uscito con qualche risposta. Chi oggi accompagna i propri figli, o addirittura i nipoti. Un ciclo, una ruota che non smette di girare.

Sessant’anni. Era il 1965 quando due preti visionari, don Piergiorgio Coccolo e don Domenico Cibrario, videro in quelle vecchie baracche per operai qualcosa di più. Non un rudere da dimenticare, ma un luogo da trasformare. Un cantiere di anime, l’avrebbero chiamato, oggi. All’epoca si parlava più semplicemente di colonia estiva. Ma chiunque ci sia passato sa che non era solo quello.

E così, anche oggi, che le stagioni cambiano e i ragazzi crescono a colpi di smartphone e social, le baracche resistono. E domenica lo hanno dimostrato. È bastato un passaparola, una pagina Facebook – “Quelli che… sono passati dalle baracche di Ceresole Reale” – qualche messaggio tra ex animatori e il gioco era fatto. Più di 300 persone sono salite per esserci. Non per nostalgia, ma per gratitudine.

Ad accoglierli, un gruppo di giovani animatori che ha fatto le cose per bene. Come una volta. Tutto organizzato, tutto curato. C’erano loro, i ragazzi di oggi, che già si preparano a un’estate di campo con gli adolescenti. E c’erano i ragazzi di ieri, che magari oggi hanno qualche capello bianco, ma lo sguardo lo stesso. Quello che ti si stampa in faccia quando torni a casa.

La giornata è iniziata con un momento semplice: l’accoglienza. Un sorriso, un abbraccio, una battuta. Poi la Santa Messa, concelebrata da diversi sacerdoti che lì, tra quelle baracche, ci hanno lasciato un pezzo di cuore. Tra loro, don Ivan, don Enrico, don Paolo, don Andrea. Ognuno con un ricordo, un aneddoto, un nome da riportare alla luce. “In quella camerata ci dormiva un ragazzo che oggi è diventato papà. E oggi porta qui i suoi figli”, ha raccontato uno. “In quella cucina si facevano i turni per lavare i piatti, e si imparava a collaborare”, ha aggiunto un altro. “Quanti di voi si ricordano la staffetta notturna? E il gioco dell’oca vivente? E il grande gioco finale del sabato?”. Un coro di sorrisi ha risposto, mentre l’altare diventava un punto di incontro tra fede e memoria.

Poi il momento più toccante: la scopertura della targa in memoria di Bertoldo Battista e Coello Domenica, due benefattori silenziosi che, con il loro lascito, hanno permesso di ricostruire metà della struttura. Un gesto che non è passato inosservato. “Ci tenevamo che questa giornata portasse anche un messaggio di riconoscenza. Perché queste baracche esistono oggi grazie alla generosità di tanti. E se continuiamo a crederci, è anche per rispetto verso chi ci ha creduto prima di noi”, ha detto uno degli organizzatori.

Dopo la Messa, il pranzo. Non un semplice pasto, ma una tavolata lunghissima all’aperto, con più di 300 persone servite da una squadra di volontari che sembrava instancabile. Pasta al ragù, spezzatino, pane fresco, dolci fatti in casa. Un menù semplice, ma carico di amore. Come allora, come sempre. “Mi sembrava di essere tornata adolescente”, ha detto una signora mentre finiva il secondo. “Stessi rumori, stessi profumi. Bellissimo”.

Il pomeriggio è volato tra chiacchiere, fotografie, risate e racconti. C’era chi si ritrovava dopo vent’anni. Chi riconosceva una faccia e non ricordava il nome. Chi mostrava vecchie foto ingiallite, chi le postava in tempo reale. “È stato come fare un viaggio nella memoria”, ha detto un ex animatore oggi cinquantenne. “Un tuffo in bellissimi ricordi”, ha aggiunto una donna con la voce incrinata.

Ma non è stato solo un amarcord. Quella di domenica è stata anche una giornata di rilancio. Un modo per dire: questo posto vive ancora, e vivrà. Perché le baracche non sono un museo. Sono un laboratorio. Dove si cresce, si sbaglia, si perdona, si ascolta. Dove la fede si intreccia alla quotidianità, dove l’amicizia è un valore che resiste, dove i ruoli spariscono e ci si incontra davvero.

In un tempo in cui tutto sembra scorrere troppo in fretta, le baracche sono un inno alla lentezza. Alla presenza. Al vivere insieme. Senza filtri, senza notifiche, senza distrazioni. Per questo sono ancora così importanti. Perché offrono un’alternativa. Perché ricordano che educare è un verbo che si coniuga al plurale. Che ci vogliono tempo, pazienza e dedizione. E che certi luoghi, se custoditi bene, diventano culle di futuro.

Alla fine della giornata, mentre il sole calava dietro le montagne, qualcuno ha proposto: “Facciamolo ogni anno”. Un applauso ha suggellato la promessa. Non serve molto: qualche telefonata, una data, un po’ di entusiasmo. Il resto lo fanno le baracche.

Le baracche di Ceresole Reale

Le baracche di Ceresole: una storia di fede e comunità

Le baracche di Ceresole Reale nascono con tutt’altra funzione. Negli anni Cinquanta, servivano come alloggio per gli operai impegnati nei lavori della galleria idroelettrica. Strutture spartane, provvisorie, costruite per resistere alla fatica e non al tempo. Ma fu proprio un’intuizione, quella di don Piergiorgio Coccolo, viceparroco di Cuorgnè, a cambiare per sempre il loro destino.

Nel 1965, don Coccolo ne parlò con don Domenico Cibrario, allora Canonico, e propose di utilizzare quei locali per una colonia estiva. Un luogo dove portare i ragazzi della parrocchia per vivere esperienze forti: nella natura, nella fede, nella condivisione. Non servivano grandi comodità. Bastavano letti a castello, una cucina, un altare improvvisato. Il resto lo mettevano i giovani: entusiasmo, energia, desiderio di crescere.

Nel tempo, le baracche sono diventate un’istituzione. Migliaia di ragazzi e ragazze, di generazioni diverse, ci sono passati. Alcuni solo per un’estate. Altri ci sono tornati come animatori. Altri ancora hanno portato i figli. Una staffetta educativa che non si è mai interrotta. E che ancora oggi continua.

Negli anni, le strutture sono state ristrutturate, migliorate, adeguate. Ma lo spirito è rimasto lo stesso. Spartano ma accogliente, rigoroso ma familiare, semplice ma intenso. Le baracche non sono solo un luogo fisico: sono un’esperienza. Un pezzo di vita che resta addosso.

E forse è proprio questo il loro segreto. In un mondo che cambia, che corre, che dimentica, le baracche di Ceresole ricordano a tutti – giovani e adulti – che per costruire qualcosa che duri, servono fondamenta solide. Come la fede. Come l’amicizia. Come una baracca che diventa casa.

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