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18 Giugno 2025 - 17:42
La montagna non si misura solo in metri d’altitudine. Si misura in chilometri da percorrere ogni giorno per un’aula, in bambini che resistono allo spopolamento, in sindaci che fanno di tutto per tenere in piedi una comunità. Per questo, la sentenza n. 2202/2025 del Consiglio di Stato è destinata a segnare un prima e un dopo nella storia dell’istruzione italiana nelle aree interne.
Il massimo organo della giustizia amministrativa ha respinto il ricorso del Ministero dell’Istruzione, confermando che le scuole di montagna possono essere soppresse solo in casi eccezionali e dopo una motivazione approfondita, documentata, partecipata. Non basta un emendamento in Consiglio regionale. Non basta la logica dei numeri. Serve un’istruttoria seria, che tenga conto della specificità dei luoghi, dei diritti dei bambini e del futuro delle comunità. E stavolta non è andata così.
Tutto nasce in Molise, dove la Regione ha varato un piano di dimensionamento scolastico per l’anno 2024/2025. Un piano che, nella sua prima stesura, non prevedeva la chiusura dell’istituto comprensivo Dante Alighieri di Ripalimosani, comune montano con oltre 500 alunni iscritti, frequentato anche da bambini provenienti da altri sei centri. Poi, all’ultimo momento, undici consiglieri regionali hanno presentato un emendamento per sopprimere l’autonomia scolastica dell’istituto, accorpandolo a scuole vicine. E il Consiglio regionale lo ha approvato.
Il Tribunale amministrativo regionale del Molise aveva già accolto il ricorso dei Comuni e di una madre di uno degli alunni, annullando la delibera per difetto di istruttoria e motivazione. Il Consiglio di Stato ha confermato: non si può decidere di cancellare un’autonomia scolastica senza considerare la localizzazione montana, il rischio di spopolamento, le indicazioni delle linee guida regionali e nazionali, e soprattutto l’articolo 44 della Costituzione, che impone di adottare provvedimenti a favore delle zone montane.
Nella sentenza si legge che la decisione appare “del tutto decontestualizzata, in contrasto con la precedente istruttoria e distonica rispetto agli apporti procedimentali acquisiti”. Insomma: una scelta presa a tavolino, senza ascoltare il territorio. In più, lo Stato avrebbe potuto mantenere un maggior numero di autonomie grazie a una norma sopravvenuta (legge 215/2023, cosiddetto milleproroghe), ma ha scelto comunque la via più semplice: tagliare.
Per questo Uncem, l’Unione dei Comuni montani italiani, ha colto la sentenza come un segnale forte. E ha rilanciato la propria proposta, scrivendo sia al Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sia alla presidente di INDIRE, Cristina Grieco, con due lettere che sono appelli politici prima ancora che istituzionali.
Nella missiva indirizzata al Ministro, il presidente Marco Bussone scrive che «la scuola salva i paesi, la chiusura è il modo più semplice per distruggerne la storia, il presente, il domani». E ancora: «Che le banche se ne vadano dai Comuni, ci fa arrabbiare. Che sia tagliata la scuola, ci fa gelare il sangue, ci immobilizza, ci fa sentire spogliati. Abbandonati e soli».
Marco Bussone, presidente nazionale Uncem
Un tono diverso, ma ugualmente determinato, quello della lettera a INDIRE. Bussone chiede un «confronto permanente» con l’istituto di ricerca per capire insieme come «la scuola si trasforma nei territori montani e trasforma i paesi». Parla della necessità di abbandonare i vecchi modelli, di ragionare in termini di centri educativi di comunità, che accolgano studenti da 1 a 18 anni. E invita a «informarci, per informare», riconoscendo il lavoro prezioso fatto da INDIRE finora.
La sentenza e le lettere di Uncem arrivano in un momento delicato, segnato da riforme imposte dal PNRR, da piani di razionalizzazione della rete scolastica e da una crisi demografica che colpisce in particolare le valli alpine e appenniniche. Ma è proprio questa crisi a rendere più urgente una scelta politica lungimirante: non chiudere, ma rafforzare. Non arretrare, ma progettare.
Oggi più che mai la montagna chiede ascolto. Le scuole non sono solo edifici con banchi e lavagne: sono presidi di vita, legalità, accoglienza, inclusione. Chiuderle significa spegnere la luce su un’intera comunità. Tenerle aperte, rinnovandole, vuol dire credere ancora in un’Italia coesa, che non lascia indietro nessuno.
Una sentenza che parla a tutto il Paese: la scuola non si chiude dove c’è ancora vita.
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