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Solidarietà a senso unico: Konecta taglia, Ivrea subisce

Un dramma annunciato: la crisi di Konecta Italia a Ivrea tra tagli, incertezze e una politica assente

Solidarietà a senso unico: Konecta taglia, Ivrea subisce

Solidarietà a senso unico: Konecta taglia, Ivrea subisce

C’è un pezzo di Ivrea che da giorni trattiene il fiato. Non è un sussulto improvviso, ma un lento strangolamento che da mesi attraversa i corridoi di quella che fu Comdata, oggi diventata Konecta Italia. Il nome è cambiato, la sede è la stessa, ma per chi ci lavora dentro ogni certezza è stata smontata pezzo dopo pezzo, commessa dopo commessa.

L’ultimo colpo è arrivato il 10 giugno, quando l’azienda ha presentato alle organizzazioni sindacali un accordo di solidarietà difensiva, firmato poi con le RSU. Un piano che interessa 11 sedi italiane e coinvolge 2.748 persone, molte delle quali — circa 300 solo a Ivrea — lavorano nello stabilimento che un tempo rappresentava la transizione post-olivettiana e che oggi si ritrova in mezzo a una crisi strutturale, drammatica, ma soprattutto annunciata.

La riduzione dell’orario di lavoro sarà di tipo “verticale”: intere giornate a casa, stipendi tagliati, bollette da pagare. Una misura che durerà nove mesi, dal 16 giugno 2025 al 16 marzo 2026, con riduzioni medie aziendali del 25% e picchi individuali fino al 45%. Ma al di là delle percentuali, ciò che pesa è la sensazione che a pagare siano sempre gli stessi: i lavoratori, le lavoratrici, le famiglie eporediesi che da anni tirano avanti in un settore — il customer care, il famigerato BPO/CRM — che macina profitti per pochi e precarietà per molti.

Ivrea non è nuova a questo tipo di annunci: ogni volta che viene persa una commessa nazionale (TIM, Generali, Fibercop), ogni volta che un colosso decide di reinternalizzare i servizi per “ottimizzare”, le prime ricadute si sentono qui, tra i cubicoli e le cuffiette, tra i turni spezzati e le chiamate a raffica. È accaduto di nuovo: calano i volumi, si tagliano le ore. E se da un lato l’azienda parla di “salvaguardia dell’occupazione” e di “riorganizzazione tra i siti produttivi”, dall’altro si apre anche una procedura di licenziamento collettivo con il criterio della non opposizione. Tradotto: se vuoi andartene, possiamo accompagnarti alla porta. Ma se vuoi restare, preparati ad accettare condizioni sempre più dure, flessibili, incerte.

Nel frattempo, mentre i dirigenti pianificano, i lavoratori si domandano cosa ne sarà del loro futuro. E non è solo una questione economica — che già sarebbe sufficiente — ma anche psicologica: come si affronta la quotidianità sapendo che il proprio lavoro può svanire da un giorno all’altro, per decisioni prese altrove, a Madrid, a Milano o in qualche sala riunioni inaccessibile?

A Ivrea si parla di cassa integrazione, ma non c’è solo quello. Si parla anche di formazione e riqualificazione, ma mancano ancora dettagli chiari, calendari, risorse. L’azienda ha promesso che i giorni di formazione saranno retribuiti interamente, e che si discuterà di premi di risultato e smart working a luglio. Ma intanto la vita va avanti, con stipendi tagliati e orari compressi. Con famiglie da mantenere, affitti da pagare, figli da mandare a scuola.

E la politica? Assente. O, nella migliore delle ipotesi, distratta. Perché se c'è una città che ha già pagato abbastanza in termini di deindustrializzazione, quella è Ivrea. Eppure, si continua a ignorarla. Le Istituzioni locali tacciono, mentre i lavoratori attendono che qualcuno, finalmente, batta un colpo. Che si dica una parola chiara sulla necessità di trattenere il lavoro qui, sul territorio, senza continuare a sacrificare posti e competenze sull’altare della logica delle grandi commesse.

Un tempo, in questa città, la parola “lavoro” era sinonimo di dignità. Oggi è diventata un rebus, un punto interrogativo. E a perderci non è solo chi si ritrova improvvisamente con due o tre giorni alla settimana in meno, ma l’intera comunità, il tessuto sociale, la rete di relazioni che tiene in piedi le famiglie, le associazioni, le piccole attività.

Serve una reazione, non una rassegnazione. Serve dire con chiarezza che ridurre l’orario non è una vittoria, che firmare un contratto di solidarietà in mancanza di alternative non è una conquista, ma l’ultima trincea prima del baratro. Serve che Ivrea alzi la voce, che i lavoratori non vengano lasciati soli. Perché il tempo della pazienza è finito.E questa città non può essere trattata ancora come una terra di passaggio, buona solo per tagliare, ridurre, ottimizzare.

Chi lavora in Konecta a Ivrea merita rispetto, merita tutele vere, merita risposte. E soprattutto merita di non essere considerato un numero da sacrificare in silenzio.

Comdata

Dalla Olivetti a Konecta: storia di un declino annunciato

C’è stato un tempo in cui Ivrea rappresentava un modello. Un’idea di città fondata sul lavoro, sull’impresa, sulla cultura industriale. Un tempo in cui, tra le architetture razionali di via Jervis, si respirava innovazione. Poi è cambiato tutto. L’età dell’oro si è spenta, lasciando il posto a un’economia dei servizi fatta di precarietà e incertezze. Dove un tempo si progettavano prodotti, oggi si gestiscono chiamate. Dove c’era la fabbrica, ora c’è il call center. È qui che si intreccia la storia di Comdata, e poi di Konecta.

Comdata nasce a Torino sul finire degli anni ’80. Si espande velocemente nel mondo dell’outsourcing, offrendo servizi di assistenza clienti alle grandi aziende. Quando apre a Ivrea, non promette sogni, ma garanzie: posti di lavoro, una struttura solida e una bella sede. Col passare degli anni il panorama si trasforma. Le logiche delle grandi commesse cambiano, il lavoro diventa più frammentato, più dipendente dai volumi. Nel 2015 entra in scena il fondo americano Carlyle, che acquista Comdata e ne guida l’espansione internazionale. Aumentano i siti in Europa e in America Latina, ma anche l’attenzione al profitto. Le persone diventano numeri da gestire su fogli Excel.

Nel frattempo, a Madrid, cresce un altro gigante del settore: Konecta. Le due aziende iniziano a collaborare, poi si fondono. Nel 2022 il gruppo Konecta assorbe Comdata e ne cancella il nome. Nel 2024, anche in Italia, il marchio Comdata sparisce: resta solo Konecta, con la sua struttura globale, il suo linguaggio standardizzato, le sue strategie centralizzate. Ma i problemi locali non si dissolvono nel nuovo logo.

La sede di Ivrea inizia a sentire il peso delle riorganizzazioni. Le commesse storiche iniziano a ridursi. I volumi calano. Arrivano i contratti di solidarietà, si tagliano gli orari, si rivedono i turni. La pressione aumenta. I lavoratori si ritrovano a gestire un sistema sempre più rigido, in cui ogni commessa può sparire da un giorno all’altro, spostata in un’altra città o in un altro Paese. E con la commessa se ne va anche il lavoro.

A chi vive tutto questo non resta che l’attesa. Le comunicazioni arrivano sempre all’ultimo momento. I piani aziendali parlano di riorganizzazione, di efficienza, di sinergie. Ma intanto chi lavora deve fare i conti con il part-time forzato, con l’incertezza, con le domande che non trovano risposte.

E le istituzioni? Osservano. A volte con preoccupazione, a volte con indifferenza. Ma mai con la forza di incidere. Le decisioni, quelle vere, si prendono altrove.

Così Ivrea rischia di essere ridotta a una voce in bilancio, a una sede da contenere, comprimere, smontare.

La storia di Konecta a Ivrea non è finita. Ma l’impressione è che stia seguendo un copione già visto troppe volte: quello di un presidio produttivo che si svuota poco a poco, senza clamore, senza resistenza, senza una vera alternativa.

Una storia industriale che non sembra destinata a un lieto fine. E che chiama in causa non solo un’azienda, ma un’intera idea di Paese. Un Paese che sembra aver dimenticato cosa significhi davvero, concretamente, garantire il lavoro.

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