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03 Giugno 2025 - 11:14
Poste Italiane si ferma: lo sciopero del 3 giugno 2025 scuote il Paes
Martedì 3 giugno 2025 sarà ricordato come la giornata in cui Poste Italiane si è fermata. Non per un guasto tecnico o un blackout informatico, ma per uno sciopero nazionale proclamato da CGIL e UIL, che ha coinvolto l’intera rete aziendale e lanciato un segnale fortissimo su quello che, a detta dei sindacati, è un deterioramento progressivo delle condizioni di lavoro e della funzione sociale dell’ex monopolista pubblico.
Per un giorno, uffici chiusi, sportelli silenziosi, corrispondenza bloccata. Le pensioni, il cuore pulsante del rapporto tra Poste e cittadino, a rischio di ritardo, e bollettini non pagati che si accumulano nelle cassette. È una mobilitazione che va ben oltre il disagio quotidiano: affonda nel conflitto fra una logica aziendale sempre più orientata al profitto e una storia fatta di servizio universale, di piccoli uffici nei paesi più remoti, di postini che conoscono a memoria ogni citofono.
La protesta riguarda tutto il personale su turno ordinario, mentre le attività straordinarie, supplementari e aggiuntive sono sospese fino al 2 luglio, per dare un segnale di continuità e determinazione. Poste Italiane ha assicurato la garanzia dei servizi essenziali, ma l’impatto su scala nazionale è evidente. Non è solo un rallentamento: è una ferita aperta, che i cittadini percepiscono ogni volta che un ufficio chiude o un postino salta un giorno di consegna.
Le ragioni dello sciopero, illustrate con chiarezza dai segretari generali Maurizio Landini (CGIL) e Pierpaolo Bombardieri (UIL), affondano nel blocco delle trattative sindacali, nella crescente pratica di accordi separati, e nella percezione di un atteggiamento autoritario da parte dell’azienda. “L’azzeramento del confronto interno – accusano – si accompagna a una strategia di marginalizzazione dei rappresentanti dei lavoratori. Si cerca il profitto, sì, ma a discapito delle persone che fanno funzionare ogni giorno il servizio”.
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Poste Italiane sciopero
Il timore, neanche troppo celato, è che Poste Italiane si stia muovendo verso una nuova ondata di privatizzazioni, senza dichiararlo esplicitamente. “Un’azienda a controllo pubblico – sottolineano i sindacati – dovrebbe giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo sociale ed economico del paese, non trasformarsi in una macchina per silenziare il dissenso interno e tagliare i costi sui diritti”.
Non è solo una questione contrattuale. In gioco c’è anche la mappa del presidio territoriale. Sempre più frequentemente, gli uffici postali nei piccoli centri vengono chiusi o ridimensionati, lasciando intere comunità senza un riferimento fisico, specialmente nelle aree interne, montane, periferiche. Luoghi in cui Poste, per decenni, ha rappresentato molto più di un servizio: un punto di incontro, di assistenza, spesso l’unico legame diretto con lo Stato.
Il paradosso è che i bilanci aziendali di Poste sono positivi, gli utili crescono, le operazioni commerciali si moltiplicano, dalle assicurazioni alla telefonia, passando per i servizi finanziari. Ma questa crescita non si riflette sulle condizioni del personale: turni pesanti, pressioni sulle performance, scarsa possibilità di carriera. “Se Poste guadagna, deve redistribuire. E i primi a ricevere qualcosa dovrebbero essere i lavoratori, non gli azionisti”, è l’appello che arriva da centinaia di assemblee sindacali in tutta Italia.
Ma lo sciopero non è solo un affare interno. Tocca la vita quotidiana di milioni di persone, quella fatta di pensioni, bollette, raccomandate, pacchi, documenti. Ecco perché la mobilitazione di oggi si trasforma in un atto politico nel senso più profondo: chiama in causa la funzione pubblica del servizio postale, il suo senso nel 2025, in una società digitalizzata ma ancora fortemente legata alla rete fisica.
Poste Italiane è da anni un ibrido: a metà tra impresa privata e servizio pubblico, tra concorrenza di mercato e obblighi di Stato. Ma quando questo equilibrio si spezza, i primi a farne le spese sono i lavoratori e le fasce più fragili dell’utenza. Quelle che non hanno SPID, non sanno usare l’app, non vivono in città. Quelle che vanno in posta come si andava in banca o in municipio: per parlare con qualcuno, per capire cosa fare.
Lo sciopero del 3 giugno non è una rivendicazione isolata, ma un sintomo profondo di malessere. E anche un monito per il futuro: se si continua a tagliare il dialogo, a chiudere sportelli e a precarizzare il personale, non resterà più nulla del servizio pubblico universale che Poste Italiane, in teoria, dovrebbe garantire.
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