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Il colosso del cioccolato chiude: duro colpo all'economia Piemontese

Sindacati in agitazione, il Comune chiede un tavolo di crisi. Il cioccolato che dava lavoro ora lascia amaro in bocca

Il colosso del cioccolato

Il colosso del cioccolato chiude: duro colpo all'economia piemontese

Il cioccolato, a Verbania, ha sempre avuto il profumo delle cose buone, sicure, familiari. Un odore che sa di turni di lavoro, di pause con le tute sporche, di mani esperte che sanno quando una crema è densa al punto giusto. Ma quel profumo sta per svanire. La Barry Callebaut, colosso svizzero leader mondiale nella produzione di cacao e derivati, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Intra, frazione industriale di Verbania, entro il primo trimestre del 2025. Una notizia comunicata senza preavvisi, senza mediazioni. E che ha fatto l’effetto di una scossa sismica in un territorio già fragile.

I numeri sono netti: 115 posti di lavoro diretti bruciati, ai quali si aggiungono altri 30-40 dell’indotto. Parliamo di 170 famiglie colpite, di operai che da anni timbrano all’alba, di padri e madri che vedono svanire in un attimo certezze costruite con fatica. La motivazione ufficiale? “Limitata redditività futura e complessità logistica del sito”. Un comunicato che suona asettico e cinico agli occhi di chi da trent’anni varca quei cancelli. È una bomba caduta dal cielo ha dichiarato Andrea Guagliardo, Fai-Cisl Piemonte orientale. “Nessuno aveva previsto nulla. Nessun segnale. Nessuna possibilità di contrattazione”. I sindacati hanno indetto lo stato di agitazione e quattro ore di sciopero a ogni turno. E intanto chiedono all’azienda di sospendere la decisione, almeno per aprire un dialogo.

La reazione delle istituzioni è stata immediata. Il sindaco di Verbania, Giandomenico Albertella, ha chiesto un tavolo di crisi urgente con Regione Piemonte e Prefettura, dichiarando che la città non ha la capacità di assorbire un simile contraccolpo”. Il presidente della Regione, Alberto Cirio, è stato informato, e si attende ora una risposta concreta da Torino. Ma il nodo è più ampio. La chiusura della Barry Callebaut si inserisce in una crisi industriale nazionale che sta lentamente sgretolando interi distretti produttivi. La grande industria alimentare italiana – dal dolciario alla conserviera – sta vivendo un momento di ripiegamento strutturale, tra delocalizzazioni, fusioni, compressione dei margini e aumento dei costi energetici e delle materie prime.

E a proposito di materie prime, c’è un dato che pesa come un macigno: il prezzo del cacao ha raggiunto il massimo storico, sfondando quota 10.000 dollari a tonnellata nei mercati internazionali. Una crescita dettata da problemi climatici in Costa d’Avorio e Ghana, principali produttori mondiali, e da fenomeni speculativi che hanno trasformato il cacao da risorsa agricola a bene rifugio. La stessa Barry Callebaut, nel suo ultimo bilancio, ha segnalato le difficoltà a mantenere la produzione in alcuni siti meno redditizi. A Intra, evidentemente, non conveniva più. Poco importa se lì si lavorava il cioccolato da decenni, prima sotto marchio Nestlé, poi come impianto strategico per il nord-ovest italiano.

Nata nel 1996 dalla fusione tra la belga Callebaut e la francese Cacao Barry, la Barry Callebaut è oggi leader globale del settore, con sede centrale a Zurigo, oltre 13.000 dipendenti, presenza in più di 40 Paesi e clienti tra i giganti della distribuzione. In Italia conta altri impianti, come Perugia e D’Orsogna, dove ha annunciato nuovi investimenti. Ma a Verbania, invece, la serranda si abbassa. E non sarà solo un portone industriale a chiudere. A chiudersi saranno le prospettive per decine di tecnici, operai, magazzinieri. Gente che non cercava la gloria, ma solo un lavoro stabile, vicino a casa, con cui crescere figli e pagare mutui.

La città intanto si mobilita. Davanti allo stabilimento, nei bar, nei gruppi WhatsApp dei lavoratori, si ragiona, si protesta, si teme il vuoto. Alcuni sindacalisti parlano già di possibili mobilitazioni su scala regionale. Altri, più cauti, sperano ancora in una mediazione istituzionale che possa salvare parte della produzione o attrarre nuovi investitori. Ma il rischio è quello di trovarsi, tra pochi mesi, con l’ennesimo scheletro industriale abbandonato, simbolo di un’epoca che si chiude e di un’economia che sempre meno guarda ai territori.

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