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Sanità
26 Maggio 2025 - 11:52
Senza infermieri non c’è salute: Torino grida l’allarme e le istituzioni dormono
A Torino la sanità sta soffocando, e non è per mancanza di pazienti. È per assenza di infermieri, quelli veri, quelli che tengono in piedi corsie e reparti, che reggono i turni di notte, che ascoltano, misurano, sostengono e si prendono cura. Ma stanno crollando, uno dopo l’altro. E mentre il personale scarseggia e i turni si fanno impossibili, il sistema continua a tirare avanti come se nulla fosse, facendo finta che basti qualche pacca sulle spalle per curare una frattura strutturale che non si ricompone più.
A dirlo, senza più mezzi termini, è l’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Torino, che con voce ferma e numeri alla mano denuncia una situazione ormai fuori controllo: “Senza infermieri non c’è salute”, è il grido che rimbalza nelle corsie, negli ambulatori e persino nelle case, dove gli operatori domiciliari sono lasciati soli come fantasmi con il camice. A parlare è Ivan Bufalo, presidente dell’Opi, che non usa giri di parole: “La situazione è critica, i nostri professionisti sono stremati. Senza un cambio di rotta immediato, il rischio è il collasso dell’intero sistema di assistenza”.
E non si tratta solo di numeri insufficienti. Il problema è ben più profondo: scarsa valorizzazione, ferie negate, riposi saltati, stipendi ridicoli e turni che nessuno in un Paese civile dovrebbe essere costretto ad accettare. Come si può pretendere cura e umanità da chi lavora 12 ore di fila, senza pause né riconoscimenti? Come si può parlare di “eccellenza sanitaria” mentre si nega un'organizzazione dignitosa, basata su modelli realmente funzionali e moderni?
Crisi infermieri
La fuga dalla professione infermieristica è già iniziata. E non si tratta di slogan, ma di una realtà misurabile: corsi universitari deserti, giovani che scelgono altro, colleghi che emigrano all’estero per stipendi e rispetto. In Italia — e a Torino in particolare — si preferisce tirare a campare, affidarsi alla buona volontà del singolo, contare sul senso di sacrificio come se fosse un obbligo morale, non una scelta professionale. Il risultato? Una frustrazione dilagante, disagio psicofisico crescente, e un ambiente di lavoro dove la fatica è l’unica costante.
Ma il paradosso più grave è che, in tutto questo, la voce degli infermieri continua a restare inascoltata. L’Opi chiede un confronto strutturale, serio, urgente. Chiede che venga potenziato l’accesso alla formazione, che si riconosca il valore reale della professione, che si creino ambienti di lavoro sicuri, umani e sostenibili. Non si parla di miracoli, ma di buon senso: chiunque viva o abbia vissuto un’esperienza in ospedale sa che gli infermieri sono l’anima silenziosa e imprescindibile della sanità pubblica.
Ed è qui che la politica dimostra tutta la sua ipocrisia. Pronta a celebrare con retorica e medaglie gli “eroi del Covid”, ma incapace di tradurre quei proclami in politiche concrete e lungimiranti. Se oggi i reparti sono aperti, è perché qualcuno ha scelto di sacrificare la propria vita privata per garantire la sopravvivenza del sistema. Ma fino a quando sarà possibile? Quando scadrà la pazienza? E a quel punto, chi ci curerà?
La verità è che difendere la professione infermieristica non è una questione corporativa, è una battaglia per la salute di tutti. Ogni turno scoperto, ogni burnout ignorato, ogni infermiere che abbandona è una sconfitta collettiva. Il diritto alla cura non è solo un articolo in Costituzione, è un diritto pratico, che si misura con il tempo, l’attenzione e la presenza. Senza chi quei diritti li garantisce ogni giorno, il sistema sanitario crolla. Ma forse è proprio questo che qualcuno sta aspettando, per poter dire: “non funziona più, meglio privatizzare”.
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