AGGIORNAMENTI
Cerca
Cronaca
24 Maggio 2025 - 19:52
Carmelo Centineo
Torino, quartiere Cenisia. È la mattina di sabato 18 maggio. In un appartamento come tanti, un figlio apre la porta della camera da letto e trova il padre Carmelo Centineo privo di vita. Ha 51 anni. Il corpo è ancora caldo, ma il respiro si è già fermato da un pezzo. Un giorno prima, quest'uomo si era recato con dolori al petto al Pronto Soccorso dell’ospedale Martini, e da lì era stato dimesso con una diagnosi di ipertensione e un consiglio: prendere un ansiolitico e riposare. Ora è morto. E quella che era apparsa come una visita di controllo qualsiasi rischia di diventare un caso giudiziario, oltre che umano.
Carmelo Centineo era un lavoratore. Titolare della “Europul di Centineo Carmelo”, un’impresa di pulizie con sede in via Cesana 45, conduceva una vita regolare, divisa tra lavoro, famiglia e gli impegni quotidiani di un piccolo imprenditore. Non aveva una cartella clinica particolarmente preoccupante, almeno secondo i familiari. Godeva di buona salute. Non era un frequentatore abituale degli ospedali. E quando ha cominciato a sentire quella morsa al petto, ha fatto la cosa più razionale del mondo: si è fatto accompagnare in ospedale.
Al Martini, i medici del Pronto Soccorso lo hanno visitato, gli hanno misurato la pressione, effettuato esami di routine, e — almeno stando alla prima ricostruzione — gli hanno escluso problemi cardiaci gravi, ricondurre i sintomi a un eccesso di tensione nervosa. Per questo gli viene prescritto un ansiolitico e viene mandato a casa. Qualche ora dopo, il suo cuore si ferma davvero. Per sempre.
Quando i soccorritori del 118 arrivano in via Rivalta, non possono fare altro che constatarne il decesso. La scena è talmente sconvolgente — un uomo di appena 51 anni, morto poche ore dopo essere stato giudicato "non grave" in un ospedale pubblico — che la notizia rimbalza rapidamente sui tavoli della Procura di Torino, che apre un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti.
I magistrati vogliono capire se nella gestione sanitaria della vicenda ci siano stati errori di valutazione, sottovalutazioni dei sintomi, o addirittura negligenze. Il fascicolo è ancora nelle prime fasi, ma già nei prossimi giorni saranno acquisite le cartelle cliniche, ascoltati i medici di turno quella notte, ed effettuata una autopsia medico-legale per chiarire le cause precise della morte.
In ballo, ora, c’è molto più di una diagnosi sbagliata. C’è la credibilità del sistema sanitario, ma anche il diritto dei pazienti a essere presi sul serio, anche quando si presentano al Pronto Soccorso con sintomi che “sembrano” non gravi.
Che tipo di accertamenti sono stati eseguiti? Carmelo Centineo è stato sottoposto a un elettrocardiogramma? È stato monitorato per un tempo sufficiente? Sono stati richiesti esami del sangue specifici per il cuore, come le troponine? E perché, se lamentava dolori al petto, è stato ritenuto compatibile con una diagnosi di “ansia” e rimandato a casa con un ansiolitico?
Sono domande che si pone anche la famiglia, straziata dal dolore, ma decisa a costituirsi parte civile nell’eventuale processo. “Papà non aveva mai avuto nulla di grave. È andato in ospedale perché si fidava dei medici. Ci è andato per non morire”, ha detto uno dei figli, mentre sul tavolo degli inquirenti si accumulano i primi documenti.
La morte di Carmelo Centineo non è solo una tragedia privata. È anche l’ennesima crepa in un sistema sanitario sempre più sotto pressione, dove i Pronto Soccorso sono affollati, i tempi di attesa lunghi, e la tendenza a sminuire i sintomi è una strategia di sopravvivenza quotidiana.
Il Martini, in particolare, è un presidio importante per la zona ovest di Torino. Ma come tanti altri ospedali, fa i conti con turni massacranti, carenza di personale, e un’organizzazione che spesso punta tutto sulla rapidità di “smistamento” più che sulla qualità dell’osservazione.
Il rischio è che in questa frenesia si perda l’essenziale: ascoltare, osservare, dubitare. Perché il dolore al petto non è sempre un attacco d’ansia. A volte è un cuore che sta per smettere di battere.
Non è ancora il momento delle sentenze. Ma è il momento delle domande, della rabbia, e del dolore. Un uomo è morto nel silenzio della sua camera da letto. Non per una malattia rara. Non per un evento imprevedibile. Ma forse — e la giustizia dovrà accertarlo — per un errore evitabile.
Nel frattempo, in via Cesana, la saracinesca dell’impresa di pulizie “Europul” è abbassata. Sopra, un foglio bianco con scritto a penna: “Chiuso per lutto”. Dentro, una famiglia distrutta che chiede solo una cosa: verità.
La sanità pubblica italiana è stanca. È un organismo esausto, che respira a fatica. A volte si regge ancora sulle spalle eroiche di medici e infermieri, ma troppo spesso traballa sotto il peso di una macchina disorganizzata, burocratica, disumanizzata. La morte di Carmelo Centineo, dimesso dall’ospedale con una compressa per l’ansia e ritrovato senza vita nel suo letto poche ore dopo, non è un fulmine a ciel sereno. È il tragico risultato di un sistema che ha smesso di ascoltare, guardare negli occhi, dubitare, prendersi cura.
Non è solo questione di fondi, anche se i tagli continui hanno inciso come lame. È una questione culturale. Abbiamo costruito una sanità dove si corre per liberare posti letto, per chiudere cartelle, per “smaltire i codici verdi”. Una sanità dove il paziente deve quasi giustificarsi di esistere, e in cui il dolore viene interpretato, troppo spesso, come disturbo, come fastidio, come perdita di tempo.
Carmelo era un uomo di 51 anni. Non era anziano, non era malato cronico, non stava cercando un letto per l’inverno. Aveva solo paura, e dolore al petto. Ha fatto quello che gli abbiamo sempre insegnato: “se stai male, vai in ospedale”. Lo ha fatto, fidandosi. E si è sentito dire che era solo un po’ teso. La diagnosi? Stress. La cura? Un ansiolitico. La fine? Un lenzuolo bianco e un figlio che non potrà più abbracciarlo.
Chi lavora nei Pronto Soccorso sa bene che ogni giorno si combatte contro l’impossibile. Ma proprio per questo, proprio per l’immenso carico di responsabilità, è criminale aver reso la medicina d’urgenza una catena di montaggio. Dove si passa da un paziente all’altro senza avere il tempo — o il permesso — di fermarsi a pensare. Di mettere in dubbio la prima impressione. Di dire: “quest’uomo mi fa paura, meglio tenerlo qui”.
In un Paese dove tutto diventa rumore, serve invece silenzio e ascolto. Serve restituire alla medicina la sua umanità. E serve farlo in fretta, perché la prossima volta non sarà solo la storia di Carmelo. Sarà la nostra.
Abbiamo ancora il coraggio di chiamarla “assistenza”? O dobbiamo smettere di raccontarci questa favola? Perché una sanità che non protegge i vivi, che non ascolta il dolore, che non dubita davanti a un petto che fa male, non è più sanità. È solo un luogo dove si muore da soli. Con una pastiglia in mano e una diagnosi sbagliata.
Edicola digitale
I più letti
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.