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23 telefoni cellulari nelle sezioni di Alta Sicurezza: ma come entrano? E perché nessuno ne risponde mai?

Perquisizione straordinaria nel carcere di Montacuto: sequestrati dispositivi in mano a 26 detenuti. Sindacati elogiano la polizia penitenziaria, ma resta un interrogativo scomodo: chi copre questi traffici?

 23 telefoni cellulari

23 telefoni cellulari nelle sezioni di Alta Sicurezza: ma come entrano?

Che nelle carceri italiane entrino telefoni cellulari è una realtà nota e tollerata da anni. Ma quando accade nei reparti di Alta Sicurezza, e quando i dispositivi sequestrati in un solo blitz ammontano a ventitré, allora la domanda diventa inevitabile: chi li fa entrare? E come è possibile che ci siano voluti mesi – forse anni – per accorgersene?

Il caso esploso ieri nel carcere di Ancona Montacuto è tanto clamoroso quanto sintomatico. In una perquisizione straordinaria guidata dal comandante dirigente Nicola Defilippis, la polizia penitenziaria ha scoperto 23 telefoni cellulari nelle disponibilità di 26 detenuti dei due reparti di Alta Sicurezza. Parliamo di sezioni dove ogni accesso, ogni movimento, ogni pacco dovrebbe essere passato al setaccio. Eppure, per mesi – o peggio, anni – quei dispositivi sono rimasti lì, in uso, alimentati, probabilmente ricaricati, e perfino collegati al mondo esterno.

I sindacati di categoria (Sappe, Sinappe, Osapp, Uspp e Fsa/Cisl) si sono subito congratulati con il personale. E hanno ragione: la perquisizione è stata efficace, il blitz ben condotto, il sequestro corposo. Ma mentre si moltiplicano i ringraziamenti e gli elogi, resta sul tavolo la questione irrisolta della permeabilità del sistema carcerario italiano.

Chi fornisce i cellulari? Familiari? Agenti corrotti? Operatori esterni? La domanda è scomoda, ma necessaria. Perché non si parla di un telefonino nascosto tra gli effetti personali, ma di una quantità tale da suggerire un sistema organizzato, rodato, efficiente. E soprattutto: funzionante sotto il naso di tutti.

Cellulari in carcere

Quello che le sigle sindacali definiscono “una testimonianza tangibile dell’impegno della Polizia Penitenziaria” è anche la prova concreta di quanto sia inadeguato il controllo di base. Se bastano una giornata di controlli e una squadra motivata per scovare ventitré telefoni, viene da chiedersi: che cos’altro non si sta cercando? O peggio, che cos’altro si finge di non vedere?

In fondo, il problema non è nuovo. I cellulari in carcere servono per minacciare, dirigere traffici, coordinare estorsioni, perpetrare vendette. Sono strumenti di potere, leve per controllare dentro e fuori le mura. Eppure, da anni si continua a parlarne come di un’“anomalia”, anziché come di un sintomo di collasso del sistema penitenziario.

I sindacati chiedono “maggiore riconoscimento del ruolo della Polizia Penitenziaria”. E su questo non si discute: servono più agenti, più formazione, più strumenti tecnologici, e un sistema che non lasci soli gli operatori. Ma servono anche risposte politiche. Perché finché ogni nuova perquisizione si limita a “scoprire” ciò che tutti già sanno, il carcere resta un teatro di ipocrisie e complicità taciute.

Il carcere di Montacuto è solo uno dei tanti. Ma quei 23 cellulari sono una prova materiale: la sicurezza si predica nei comunicati, ma si smonta, giorno dopo giorno, tra turni infiniti, controlli deboli, e silenzi sistemici. Finché non si affronterà questa realtà con decisione – e non solo con ringraziamenti – i telefoni continueranno a squillare. Anche dietro le sbarre.

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